Quanto conta Renzi per la nuova amministrazione statunitense? Poco. Renzi è molto presente sulle tv anglosassoni eppure la sua visibilità relativa non corrisponde a un uguale peso politico a Washington.
Quelle interviste fanno discutere da noi, finiscono sui social da noi, mentre oltreoceano non hanno impatto. Sono il frutto più di un capitale di credibilità accumulato ai tempi in cui era presidente del Consiglio e il rapporto con Obama era cordiale – e probabilmente anche di un ottimo ufficio stampa – che del ruolo giocato da Renzi nella crisi che ha portato alla caduta del governo Conte e all’ascesa di Mario Draghi.
Renzi è stato l’artefice parlamentare della caduta del governo Conte, al Senato e alla Camera ha vinto la sua ennesima partita tattica. Ma non è il king maker del nuovo esecutivo che nasce casomai dal lavoro del presidente della Repubblica Mattarella e dell’ex governatore della Banca Centrale Europea. Un lavoro discreto, con diplomazie che hanno dialogato nel tempo.
Renzi, nonostante il presenzialismo in tv, nonostante le conferenze in giro per il Mondo si trova in questo momento ai margini. Anche perché certe sue prese di posizione come il sostegno al regime saudita, certi suoi rapporti come quello con il “neoconservatore” statunitense Michael Leeden, certe reti come quelle che conducono alla destra israeliana attraverso lo stretto collaboratore Marco Carrai, non sono il miglior biglietto da visita nei confronti di chi comanda oggi negli Stati Uniti.
Draghi, invece, è un interlocutore importante e solido per l’amministrazione Biden. Un campione di caratura internazionale. Per i democratici statunitensi Draghi è un leader fondamentale in Europa fin dai tempi del salvataggio dell’Euro nel 2012 e oggi il suo esecutivo è garanzia di adesione italiana alle linee strategiche di Washington guardando a Roma: stabilità sul piano interno, rilancio dell’atlantismo e dell’unità europea sul piano della politica globale.