Quanti saranno i bersaniani che lasceranno il Partito Democratico? La risposta a questa domanda darà una ulteriore misura concreta alla scissione dal Pd. E’ vero, come ha detto Gianni Cuperlo, che “è la dimensione simbolica” della scissione a contare. Ma è vero anche che ora è il momento di misurare i rapporti di forza. Secondo gli ultimi calcoli della serata di martedì, alla Camera i deputati bersaniani in uscita dovrebbero essere una ventina su quaranta. Al Senato, dodici su venti. Numeri soggetti a variazioni ovviamente. Numeri che dicono che -stando a martedì sera- alla scissione non aderiscono tutti i potenziali interessati. Del resto, se si allarga lo sguardo dal Parlamento agli enti locali, in Comuni, Province e Regioni non si vedono emorragie. Nel Lazio, il presidente della Regione, Zingaretti si è affrettato tra i primi a dire che non lascia il Pd. E il gruppo consiliare perderà pochi pezzi. Lo stesso accadrà al Comune di Roma. In Lombardia e a Milano le defezioni dovrebbero essere ancora meno. In Toscana, Enrico Rossi si troverà a dover gestire un consiglio regionale a larghissima maggioranza renziana. Tornando al livello nazionale, non aderisce alla scissione Michele Emiliano il quale, fin dall’inizio, ha giocato una partita in proprio e con l’ennesimo intervento spettacolare alla direzione nazionale del Pd ha annunciato che resta e che si candida alla segreteria. Emiliano spera di raccogliere i voti degli anti renziani soprattutto alle primarie, che saranno aperte a tutti quindi anche ai sostenitori di chi se ne è andato (e poi ci sono le interpretazioni maliziose, molto maliziose, secondo cui sarebbe stato D’Alema a “consigliare” a Emiliano di rimanere, sorta di cavallo di troia per assediare Renzi da fuori e da dentro).
Dove andranno gli scissionisti? Questo è un problema. Autorevoli esponenti vicini a Campo Progressista, la nascente formazione politica guidata dall’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia spiegano che l’ingresso degli ex Ds capitanati da Bersani sarebbe da evitare e che Pisapia temerebbe molto quello che rischierebbe di essere un abbraccio mortale. “Pisapia è forte perché è di sinistra, è laico, e incarna lo spirito della governabilità -spiega uno che è molto addentro al progetto- la sua forza è la capacità di raccogliere il voto di opinione. Gli ex Ds da questo punto di vista sono meno attrattivi e la loro eredità culturale e politica potrebbe essere un fardello troppo pesante”.
Insomma, è la sintesi del ragionamento, meglio che Pisapia si tenga lontano da loro: “Bersani è troppo grosso, se entrasse per accettare la leadership incontrastata di Pisapia bene, ma è difficile che possa accadere”. E’ per questo che la scissione del Pd è vista con preoccupazione.
A proposito di Campo Progressista. Chi lo sta costruendo preferisce le elezioni nel 2018, al termine della legislatura. Serve tempo. Lo pensa anche Romano Prodi, spiega chi lo conosce bene. Il suo appello in extremis all’unità del Partito Democratico non è stato accolto ma del resto anche Il Professore ha ormai un giudizio molto critico nei confronti del Pd. “Una creatura che non è quella a cui abbiamo dedicato venti anni della nostra vita” dice un prodiano della prima ora.
Gli scissionisti intanto annunciano i nuovi gruppi parlamentari. Da soli o con gli ex di Sel vicini ad Arturo Scotto e che non hanno aderito a Sinistra Italiana? “Saremo insieme” aveva detto Enrico Rossi. In realtà, ci sono dei problemi anche in questo caso. Scotto e i suoi sono contro il Governo mentre Bersani e Rossi escono dal Pd dopo avere chiesto invano a Renzi un impegno solenne a sostenere Gentiloni fino alla fine della legislatura. Quando, come è probabile, dopo la scissione il presidente della Repubblica dovesse mandare il Governo alle Camere per un voto di fiducia di verifica politica, l’eventuale gruppo scissionisti-Scotto come si comporterebbe?