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Rokia Traorè: la mia vita di artista maliana

A qualche ora dall’attacco jihadista a Bamako, abbiamo raggiunto telefonicamente nella sua casa nella capitale maliana Rokia Traoré, figura fra le più apprezzate a livello internazionale della musica del suo paese. Figlia di un diplomatico, laureata in sociologia, è come sempre estremamente disponibile e precisa nelle sue risposte.

Come ha appreso questa mattina la notizia?

Naturalmente con grande tristezza. Ma con quello che è successo a Parigi venerdì scorso, mi ero detta che ci sarebbe stato presto qualcosa anche altrove. Non è più come cinque anni fa o anche solo tre anni fa, quando cose di questo genere erano episodi eccezionali, e ci si diceva che non ce lo si sarebbe mai immaginati: ormai lo sappiamo. Ma questo non vuol dire che ci si abitui, è sempre un’emozione molto violenta, sapere che ci sono di nuovo dei morti. E’ stato uno shock, quando ho avuto la notizia da un parente che mi ha telefonato per essere sicuro che andasse tutto bene: non abito in centro ma vivo pur sempre in città, e vado spesso nel quartiere dell’albergo, dove ci sono molti uffici. E prima che finissimo la telefonata – erano più o meno le nove e mezzo – il personale in casa ha cominciato a parlare di quello che era successo, è verso le nove che in città che tutti hanno cominciato a saperlo. Adesso c’è una calma di tomba.

Quali sono stati i suoi primi pensieri?

La domanda che mi faccio è come si possa fare a portare l’umanità fuori da questo periodo di follia: fra gli attacchi islamisti e il problema dei rifugiati in Europa, con la reazione dell’estrema destra che non vuole che si aprano le porte, e che cresce dappertutto… siamo in un mondo che è sempre più nefasto per chi lo abita.

Dopo la ripresa agli islamisti del Nord del Mali e gli accordi che ci sono stati, si poteva avere l’impressione che la situazione si fosse in una certa misura stabilizzata…

Ma naturalmente una situazione del genere non si stabilizza dall’oggi al domani, e poi quello del Mali non è un caso isolato. La situazione del Mali deriva da una situazione generale: è una delle conseguenze dirette dell’attacco alla Libia, e il nostro paese, già fragile, che non aveva investito molto sull’esercito, si è ritrovato ad essere la porta d’entrata di ogni sorta di problemi. Ma bisogna ricordarsi che c’è anche la Nigeria, dall’altra parte. In ogni caso non si possono considerare isolatamente gli attacchi estremisti, che siano in Mali, in Tunisia, a Bruxelles o a Parigi, come se fossero isolati: tutto è legato, e anche se chi li compie non è un’organizzazione unica, hanno tutti lo stesso obiettivo – imporre al resto del mondo una volontà basata su dei loro principi – e sono comunque molto organizzati. Certo non è un compito facile per il governo maliano fare fronte alla situazione e soprattutto rassicurare la popolazione, ma è questa capacità a fare la differenza, e nel caso del Mali ci si può chiedere con preoccupazione fino a che punto saranno in grado di assicurare la nostra sicurezza: tenendo conto che comunque le cose sono complicate anche altrove.

Ha appena ricordato che in tutto questo la Francia ha la responsabilità dell’intervento in Libia, ma ricordo che in un’altra intervista che avevamo avuto lo scorso anno, la sua valutazione dell’intervento della Francia in Mali era che nell’immediato la Francia aveva dato una soluzione ad una situazione insostenibile.

Sì, la Libia e il Mali non sono paragonabili: la situazione in Mali è una chiara conseguenza dell’intervento in Libia. Ma una volta che il problema era stato creato, bisognava almeno evitare che l’incendio si allargasse. La questione della Libia avrebbe dovuto essere affrontata in maniera diversa, e sono in molti ad averlo detto. Lasciamo stare chi era Gheddafi, non voglio difendere quello che c’era prima: ma ci sono modi diversi di fare le cose. Così è stata destabilizzata una intera regione, questo non è un segreto per nessuno. E che molti dei ribelli siano arrivati in Mali dalla Libia e che molte armi che circolano oggi nel paese vengano da lì, non sono cose che qualcuno dice tanto per dire, sono dati di fatto. Quindi, una volta che questo tipo di situazione è stata creata, si poteva forse dire: ok, in Libia le cose sono andate male, quindi adesso non si interviene più ? Per quanto riguarda il Mali non stiamo parlando di una situazione nata all’interno del paese e nella quale la comunità internazionale si è ingerita, ma delle conseguenze in questo paese di una situazione creatasi altrove, e rispetto alla quale il Mali non era in grado di difendersi da solo. Proviamo ad immaginare in che situazione sarebbe il Mali e più in generale il mondo, se l’occupazione del nord del paese fosse continuata: avremmo avuto forse una situazione migliore ? Non avremmo avuto attentati né in Francia né in Mali ? Oggi tutto il paese sarebbe occupato, sotto un regime islamista, con delle armi, e tutta la regione ne sarebbe contagiata. Ci troviamo di fronte organizzazioni con un progetto che ha un orizzonte mondiale, e la loro occupazione di territori ha comunque un impatto mondiale: se gli si fosse abbandonato il paese, non possiamo certo sognare che si sarebbero accontentati di starsene a cinque ore di aereo dall’Europa. La situazione in cui la Francia è intervenuta in Mali era d’emergenza, non ho cambiato la mia opinione su questo. Come non l’ho cambiata su interventi come quelli in Libia e in Irak: quando, come era lì, ci sono dei leader che hanno un potere così grande, bisogna fare attenzione e affrontare i problemi sul piano politico e diplomatico, come ci insegna la destabilizzazione che abbiamo sotto gli occhi in Irak, che è una conseguenza diretta della guerra.

Che cosa pensa della reazione militare della Francia agli attacchi a Parigi, con l’intervento in Siria ?

Siamo in un mondo dove probabilmente bisognerebbe trovare il modo di sedersi tutti assieme e riflettere. Che dopo la violenza degli attacchi che ci sono stati in Francia ci sia una risposta militare di questo genere non stupisce, ma c’è da chiedersi se sia la soluzione. Ma se ci sono delle altre soluzioni, domandiamoci anche se l’Europa è pronta a discuterne e a prendere delle decisioni europee. Se le armi hanno il loro ruolo in questo conflitto, probabilmente ce l’hanno anche il sociale, la saggezza, la filosofia. Sinceramente non so: penso che oggi siamo ad un punto a cui dieci anni fa nessun abitante di questo paese poteva pensare che si arrivasse, e nessuno ora sa fino a dove arriveremo.

Stava dicendo del sociale, della filosofia: a Bamako si può avere la percezione di una certa infiltrazione del jihadismo in strati e ambiti della società ? Non penso alle armi e agli aspetti militari, ma alla mentalità, agli atteggiamenti…

Senza arrischiarmi su cose di cui non sono sicura – perché in una situazione di questo genere è importante essere sicuri di quello che si dice – quello che posso dire è che socialmente ci sono le premesse perché una gran parte della popolazione possa essere facilmente arruolabile. Perché se le risposte che non si hanno da parte dei politici si pensa di poterle avere dalla religione, beh, si prendono quelle: perché abbiamo tutti bisogni di essere rassicurati e di un quadro di riferimento, e quel quadro in Mali tarda ad essere offerto. In realtà è questo il problema: mettere la gente nelle condizioni di riflettere e di prendere delle buone decisioni, facendo definitivamente la differenza tra la religione e l’estremismo. Ma far sì che ci sia un reale dibattito non è facile, perché nella maggior parte della popolazione non esiste più la fiducia, si sente chiaramente che sono ormai oltre lo stadio della critica, che semplicemente l’immagine che hanno dei dirigenti è che è gente che è lì solo per riempirsi le tasche. E a questo punto il marabout, l’uomo della religione diventa il riferimento perché appare qualcosa di diverso. Come farà un governo a riuscire a ricostruire la fiducia della gente non tanto nei politici come persone quanto nelle istituzioni ? Questo è un lavoro enorme, ma è quello che bisogna fare in Mali, ed è talmente urgente che va fatto contemporaneamente al resto.

Nei limiti delle sue possibilità, lei da anni con la sua fondazione Passerelle svolge a Bamako una attività di formazione all’arte e allo spettacolo, che più recentemente si è estesa anche all’educazione dei bambini nel quartiere dove vive. Si può immaginare che non sia facile…

In effetti è difficile sviluppare i progetti in maniera normale. E’ ovvio per esempio che non ci si mette a proporre delle cose in pubblico quando in questo momento i luoghi pubblici sono dei bersagli. Ma allo stesso tempo non abbiamo fermato tutto e cerchiamo di reggere, a partire dai fondi che abbiamo che sono basati principalmente su mie risorse: continuiamo nella costruzione delle strutture e manteniamo l’equipe che abbiamo costituito e che funziona bene. Per me è complicato anche perché devo conciliare questa attività col fatto di avere i miei figli di cui occuparmi, e con la gestione del mio lavoro che mi porta spesso ad essere in giro. Ma è il mio paese, e fin che sarà possibile non posso abbandonare: ho la responsabilità della scuola per i bambini che abbiamo avviato, e del personale che è impiegato dalla fondazione, e se dovessi fermarmi sarebbero problemi per molti. D’altro canto come madre devo anche considerare che i miei figli frequentano scuole che possono chiaramente essere degli obiettivi, e che viviamo praticamente come reclusi, perché con la situazione che c’è è un problema anche solo andare ad un ristorante. Ecco la mia vita di artista maliana.

Lei ha un nuovo disco in uscita il prossimo febbraio: è difficile parlare di musica in giorni come questi ?

Bisogna parlarne! Mentre noi siamo al telefono ci sono decine di persone sequestrate all’Hotel Radisson: quello che è successo a Parigi e sta succedendo qui è triste per le vittime ma anche per gli artefici di questi attacchi; ed è triste che si pensi di poter chiudere le porte dell’Europa in faccia a degli esseri umani. E’ un mondo folle. E allora bisogna attaccarsi a quello di normale che ci resta: e far uscire un album è normale per qualcuno che fa musica.

Che temi tocca l’album ?

La canzone che dà il titolo all’album, Né So, che significa “a casa mia”, è dedicata ai rifugiati: il brano è stato concepito nel 2014, il che è di per sé inquietante, perché già allora la situazione era drammatica e nel frattempo le cose non sono affatto andate a posto, come possiamo vedere. E’ un brano che riflette anche la mia esperienza personale negli ultimi anni, fra l’occupazione del nord del Mali, il trasferimento in fretta e furia in Europa, i problemi nella mia vita privata e quello che ti può capitare nella quotidianità – mentre c’era l’invasione del Mali, in Francia dei malfattori hanno clonato la targa della mia macchina e sono stata in ballo dei giorni con la polizia. Arrivi ad un punto in cui ti dici che non ce la farai, e poi invece una volta che ci sei ti accorgi che impari a conviverci. La lezione è che può capitare di tutto, e che per quanto la tua vita sia stabile, tutto può precipitare. Con questo “a casa mia” intendo anche riferirmi alla nostra condizione umana, all’accettarla: con tutta la sua bellezza, la sua varietà, tutto quello che c’è di piacevole nel mondo – e in effetti credo di non avere mai fatto un album in cui ci sono così tanti brani molto leggeri, perché più che mai amo la musica e il fatto di essere una musicista – ma anche con tutta la coscienza della limitatezza delle nostre possibilità come esseri umani. E forse esserne consapevoli può permetterci di essere più forti.

“Né So” dunque è il titolo della prima canzone pubblicata dal disco che vedrà la luce a febbraio 2016, e che vi presentiamo con questo video. Il disco avrà lo stesso titolo, è stato prodotto da John Parish e avrà come ospiti Devendra Banhart, John Paul Jones e il Kronos Quartet.

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  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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