Una volta un uomo anziano, in dialetto, mi ha detto: “La guerra lascia il segno, ghe ‘gnent de fa”. Io la guerra con i miei occhi non l’ho mai vista, ma come giornalista ho visto i segni che lascia. Questa è la prima, però, che percepisco così vicina a me. Così vicina all’Europa che da tutta la vita sento come casa mia. L’Europa che ho visitato e che ho vissuto come viaggiatrice e come studentessa. L’Europa dove ho incontrato tanti ragazzi e ragazze, che venivano da tutto il Mondo, ma che mi sono sempre sembrati così simili a me. La guerra, però, per definizione, spacca. Divide famiglie, popoli, nazioni, continenti. Separa tutto in modo così netto e violento che ogni tanto, quando smetto i panni della giornalista, quando torno a casa e mi concedo i pensieri ingenui della me più bambina, mi chiedo come sia possibile che al mondo ci sia anche solo una persona che possa pensare che fare la guerra sia una scelta migliore che fare la pace.
Leggere e studiare mi permette di riuscire a mettere la giusta distanza tra me, i miei sentimenti, e quello che succede. Mi permette di prendere coscienza del fatto che anche quando penso di aver capito qualcosa, la realtà poi è sempre più complessa e le sfumature sono sempre la parte più importante dei colori che la compongono.
Quello che però non riesco a capire, è perché in tutte le guerre, i conflitti, o le crisi che nella mia (molto breve) carriera da giornalista mi è capitato di osservare c’è sempre una parte della popolazione – una generazione – che quella situazione la subisce e basta. Non ha potere decisionale, ma il mondo che i grandi distruggono, è il suo. Penso alla crisi climatica, e ai più giovani che inascoltati ripetono da anni che “basta così”, che è il momento di fermarsi. Penso ai ragazzi in Birmania, che da più di un anno sono costretti a combattere, nel loro paese, contro l’ingordigia del potere, contro la violenza di una storia che ha radici troppo profonde perché vengano sradicate in un momento. Penso alle nuove generazioni di Hong Kong, che si rifiutano di accettare un futuro senza libertà di pensiero e di espressione. O ai cileni dell’estallido social, che a un certo punto si sono guardati e hanno deciso che se non facevano qualcosa il loro futuro sarebbe stato scritto da altri, ancora una volta. Tutti ragazzi e ragazze che hanno combattuto battaglie che non erano una loro responsabilità. E che per la loro voglia di libertà hanno pagato un prezzo molto caro. Qualcuno ora raccoglie i frutti di questo coraggio, ma la maggior parte di loro continua a soffrire e a combattere guerre che non sono le loro.
E poi penso ai giovani ucraini. Che da un giorno all’altro hanno dovuto indossare un elmetto e imparare a sparare oppure sono dovuti scappare nella notte, al freddo verso un paese che non conoscono, verso un futuro che – improvvisamente – non era più quello brillante che i loro genitori gli avevano sempre promesso.
Penso, però, anche ai ragazzi e alle ragazze russi. A quelli che sono stati inviati al fronte accompagnati da una bugia, e a quelli che sono rimasti in Russia, spaventati, increduli, confusi. E, soprattutto, a quelli che nonostante i rischi, le multe, gli arresti, continuano a chiedere la pace.
Ecco, quando penso a loro, a tutte queste persone che potrei essere io, che potrebbero essere amici con cui bere una birra alla sera, penso a quanto queste guerre non ce le meritiamo. A quanto la pace, invece, sia sempre la risposta a tutto. Una pace tra popoli, ma anche una pace climatica, una pace femminista, una pace di libertà. Perché è così, la guerra la fanno i grandi, quelli che hanno il potere, ma i segni, poi, li portiamo noi.