Qualche giorno fa, in occasione del suo concerto milanese, abbiamo nuovamente ospitato Glen Hansard a MiniSonica e su Popolare Network: l’ultima volta in cui ci siamo incontrati era qualche anno fa, lui era sempre a Milano per suonare dal vivo, in quell’occasioni le canzoni arrivavano dal suo precedente album, Rhythm and repose. Questa volta invece abbiamo parlato del suo nuovo lavoro, Didn’t he ramble. Un disco che Hansard ha immaginato come un omaggio alla sua famiglia, e a suo padre in particolare. Ecco il frutto della nostra conversazione, accompagnata da un paio di foto scattate da Elisa Pella, che ringraziamo, durante il suo concerto all’Alcatraz di Milano.
In fondo alla pagina, invece, trovate l’audio completo dell’intervista.
Glen, ricordo che l’ultima volta che ci eravamo parlati, mi avevi detto di non essere per nulla sicuro di voler fare un altro album, finito il tour in cui eri impegnato. Che volevi riposarti, fare altro, liberarti in qualche modo dalla musica, anche se forse è un’espressione troppo forte. Siamo molto felici di avere invece modo di ascoltare delle tue nuove canzoni con questo Didn’t he ramble, ma vorrei chiederti di raccontarci come è andato il tuo periodo di riposto e liberazione, se poi c’è stato davvero…
GH: Liberarsi è proprio la parola giusta invece, e non è una cosa facile da fare. Avevo bisogno di tempo, di spazio, di una pausa, di concentrarmi su altre cose. E l’ho fatto, sono stato proprio in Italia, sono stato a Lucca per qualche settimana, semplicemente andando in giro per le strade e godendomi quella città. Ho anche fatto un piccolo concerto, perché ho conosciuto delle persone davvero simpatiche che mi hanno chiesto di suonare: la musica in realtà non si ferma mai, ed è sempre sorprendente quanto poco tempo ci voglia per ritrovarsi e riprendersi. Prima sei esausto, a pezzi, poi passano una decina di giorni e ritrovi dentro di te la voglia, il fuoco, e sei tornato. Ogni volta è una sorpresa bellissima.
Questo vuol dire forse che hai semplicemente scelto il lavoro giusto?
GH: sì, è così. C’è questo vecchio detto secondo cui se ami il tuo lavoro non lavorerai mai un giorno della tua vita. E questo per me è proprio vero, la mia vita è fatta di amore per la musica, tanto che quando sono in tour mangio meglio e dormo meglio: ogni volta è un po’ come ufficializzare che la persona che sono vuole fare questo, che questo è l’ambiente in cui mi trovo a mio agio.
Sempre tornando a quello che ci avevi raccontato nell’altra nostra intervista, allora ci avevi raccontato di come le canzoni di Rhythm and repose fossero nate a New York, durante un periodo in cui avevi vissuto lì. Per questo album invece cos’è successo?
GH: Le canzoni si ritrovano e si raggruppano a loro modo, l’ispirazione non rispetta gli appuntamenti o i momenti di pausa, arriva quando arriva. E le canzoni hanno una vita. Alcune, le grandi canzoni, hanno una vita lunga, altre invece sono più delicate e hanno una vita più breve, e per questo quando stai scrivendo una canzone vuoi pubblicarla il più velocemente possibile, prima che le succeda qualcosa, che invecchi precocemente. Quando inizi a comporre senti questa urgenza di fare uscire quelle canzoni, per prenderti cura di loro, per farle esistere davvero. Perchè una canzone deve servire a qualcosa, una canzone non è solo una bella fila di parole e una bella melodia, una canzone deve essere utile, deve servire alle persone, come un pezzo dell’arredamento di casa, deve essere usata. Per cui finché ha un cuore, finchè è viva, è meglio farla uscire velocemente.
Non vorrei sembrare sfacciato, ma quello che raccontavi ora dell’ispirazione, mi ha ricordato un passaggio del testo della canzone “Her mercy” che troviamo su questo album nuovo, in cui dici che “quando sei pronto, arriverà”…
GH: sicuramente c’è un paragone possibile. Quella canzone è nata pensando al modo in cui Leonard Cohen usa questa parola, mercy, pietà. Stavo leggendo la sua biografia, I’m your man, scritta da Sylvie Simmons, e ti giuro che in quel periodo mi trovavo a scrivere in continuazione, tanto ero ispirato dalla storia della vita di Cohen e dalla sua parabola artistica. E in quel libro lui parla molto di questa parola, mercy, e dei tanti significati che lui pensa che abbia, dei tanti modi in cui l’ha usata nei suoi testi. Così, per quanto possa sembrare un po’ azzardato, ho cercato di scrivere questa canzone per lui, dedicandola a lui e al suo modo di usare la parola mercy, pensando che se un giorno la dovesse sentire, possa capire che cosa voglio dire. Sai, quando lavori su te stesso, quando rifletti su quello che fai, allora l’ispirazione per la musica arriva da te, è libera di raggiungerti. Adesso ho 45 anni, quando ero giovane l’ispirazione per una canzone arrivava di botto, come un quadro di Pollock, immediata ed energica. Dovevo solo seguirla, senza pensarci troppo, fidandomi di quello che veniva fuori. Adesso invece credo che sia necessario riflettere maggiormente, farsi delle domande. “È vero quello che sto dicendo, ci credo davvero, sono proprio io quello che canta questa canzone?” E quando ti rispondi di sì, va tutto bene, ma quando invece la risposta è negativa, diventa più complicato.
Ho letto in una recente intervista che hai fatto che la canzone che dava il titolo al disco, Didn’t he ramble, è stata esclusa dalla scaletta finale. Ci racconti i motivi di questa decisione?
GH: sì, certo: quella canzone non è mai veramente entrata nel disco, non ho mai trovato il modo giusto per esprimermi come volevo. Stavo scrivendo quel pezzo per mio padre, volevo che fosse un omaggio semplice, un po’ come un brindisi da fare al suo funerale, per salutarlo e omaggiarlo con un sorriso e una frase. Volevo che non fosse un pezzo emotivo, ma che fosse un tributo all’uomo che è stato mio padre, senza giudizi o altro, semplicemente come levare il cappello di fronte a quella persona. Però non ci sono riuscito, non sono riuscito a tenere le emozioni fuori dal testo, e in qualche modo ci sto ancora provando a scriverla, spero un giorno di poterla registrare. Ma ho tenuto questo titolo perché ugualmente volevo che il disco fosse un omaggio a mio padre e alla mia famiglia e ai miei amici. Volevo che in questo disco non ci fossero canzoni d’amore, volevo che nei testi non ci fossero le parole ‘amore’ e ‘cuore’, e se per caso ci fossero state, doveva essere perché intendevo veramente usarle.
Mi ha colpito quel che dicevi prima di Leonard Cohen: lo hai mai incontrato di persona?
GH: sì, l’ho incontrato qualche volta. La prima volta avevo 15 anni, lui faceva due concerti a Dublino, la stessa sera. Un concerto nel pomeriggio e uno la sera tardi. Io sono andato allo spettacolo del pomeriggio, con mio cugino, che aveva comprato i biglietti. Lui era molto più grande di me, ma soffriva di epilessia. Eravamo al concerto e Cohen è salito sul palco. Eravamo entrambi molto emozionati, e Leonard iniziò con “Famous blue raincoat”, una canzone meravigliosa. Mio cugino si emozionò ed ebbe un attacco di epilessia, così arrivò un’ambulanza e Leonard Cohen fermò l’esecuzione del pezzo per sincerarsi che andasse tutto bene. Mentre stavo uscendo con mio cugino e gli infermieri, il tour mananger mi raggiunse per dirmi che se volevamo tornare per il concerto della sera eravamo i benvenuti, e mi diede due biglietti. Così tornammo, e ci misero in un bel palchetto per poter vedere bene il concerto. Alla fine Leonard venne a salutare me e mio cugino, e fu in quel momento, ti giuro, che decisi che avrei voluto fare il musicista da grande, che volevo che fosse la mia vita. E’ stata la prima volta in cui ho conosciuto un vero maestro e la cosa mi ha toccato così profondamente che non ho avuto più dubbi: quella doveva essere la mia vita.
Hai voglia di raccontare qualcosa anche della storia di “McCormack’s Wall”, un’altra delle canzoni di questo tuo nuovo disco?
GH: sì, certo. Ho scritto quel pezzo dopo una serata meravigliosa, una di quelle serate uniche, inaspettate, in cui la magia della notte continua a manifestarsi davanti a te. Ero con un’amica, una fantastica musicista, irlandese come me. Si chiama Lisa O’Neill e scrive canzoni bellissime. Ci siamo incontrati in città, abbiamo bevuto una birra in un pub, poi un’altra in un altro pub, poi siamo andati a sentire suonare un amico e la sua band, ci siamo un po’ ubriacati e abbiamo deciso di andare a visitare il luogo dove nacque John McCormack, che è stato uno dei più grandi cantanti irlandesi, un tenore straordinario. Così volevamo andare nel posto dove era nato, che io conoscevo perché avevo abitato per un certo periodo di fianco a questo rudere che è diventata la casa dove è cresciuto. Abbiamo rubato una bottiglia di vino dal camerino del nostro amico e siamo andati lì, ci siamo seduti su un pezzo di muro e abbiamo cantato molte canzoni, dedicandole alla memoria di John McCormack. Ovviamente era una situazione romantica, c’era un flirt tra di noi che era cresciuto nel corso della serata, e io non volevo rovinare quell’atmosfera. E anche se avrei dovuto essere chiaro con lei e dirle che avevo già una ragazza, non l’ho fatto, non volevo rovinare il momento. Così il giorno dopo lei era arrabbiata con me, perché dovevo avvertirla prima, e aveva ragione. Allora ho scritto questa canzone per chiederle scusa, per averle fatto pensare che ci fosse di più tra di noi. Anche lei ha scritto una canzone su quella sera. Poi una volta abbiamo suonato insieme e entrambi abbiamo cantato queste canzoni, molto diverse tra loro, ma che raccontano della stessa serata.
QUI PUOI ASCOLTARE L’INTERVISTA INTEGRALE