Approfondimenti

Gip’s Place, il garage del blues

L’unica luce che illuminava la strada sterrata era quella della luna piena. I rami degli alberi mossi dal vento creavano figure tetre e minacciose. Sapevamo però di non esserci persi. Ci avevano detto che non sarebbe stato facile trovare uno degli ultimi juke joint d’America e che la musica blues, e non il navigatore, ci avrebbe guidati.

E così è stato. A un tratto i rumori della natura si sono zittiti. Dall’altra parte del bosco una band suonava un pezzo di John Lee Hooker. Ed è seguendo la musica che abbiamo trovato il Gip’s Place, un tesoro ben nascosto nella periferia nera di Bessemer, una cittadina alle porte di Birmingham (Alabama).

Questo locale attira gli amanti del blues dal lontano 1952, da quando il musicista-operaio Henry Gipson, chiamato amorevolmente Mr. Gip, ha deciso di aprire le porte del suo piccolo garage a chiunque volesse suonare il blues.

Mr. Gip racconta che lui e i suoi amici musicisti cercavano un posto tranquillo dove suonare la loro musica e il garage in fondo al suo cortile era il luogo più adatto.

“Erano tempi duri quelli”, mi spiega riferendosi agli anni in cui nel Sud vigevano leggi che imponevano una violenta segregazione alla popolazione di colore.

Mr. Gip in Clarsdale, MS

I neri da queste parti non potevano frequentare le scuole migliori, perché erano bianche; nonostante fossero cittadini americani e avessero diritto di voto, chi osava reclamare tale privilegio doveva sottoporsi a un test di domande umilianti e di trabocchetti e se riusciva a superarlo veniva punito dagli uomini del Ku Klux Klan.

Negli autobus i neri dovevano sedersi in fondo e alzarsi se un bianco rimaneva in piedi. Pena la prigione. I bar e i ristoranti non servivano i neri. I parchi erano per i bianchi. C’erano cimiteri per neri e per bianchi, fontanelle d’acqua per neri e per bianchi. Insomma, se si aveva la pelle nera, nel Sud bisognava seguire un’infinità di regole e stare molto attenti, perché bastava poco per finire nel mirino degli uomini del Klan.

Mr. Gip, per esempio, è stato picchiato perché suonava e cantava il blues.

“Suonavo assieme a un amico per i minatori di Hueytown (una cittadina mineraria dell’Alabama, ndr). Alla gente piaceva la nostra musica. Agli uomini del Ku Klux Klan però dava fastidio che i neri si divertissero. E così una sera mi buttarono in terra, ruppero la mia chitarra e mi spezzarono le dita della mano destra”.

Nonostante siano passati più di sessant’anni, il ricordo di quell’aggressione turba ancora Mr. Gip. La cosa più terribile per un musicista è non poter suonare il suo strumento, mi spiega, e Mr. Gip aveva paura di non riuscire più a prendere in mano la chitarra. Gli ci sono voluti tre anni di duro esercizio e tanta forza di volontà per suonarla come prima.

“È stato molto difficile, ma ce l’ho fatta e tuttora suono il blues”.

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Così, per sicurezza, i neri preferivano suonare la loro musica lontano da orecchie bianche e la notte i garage delle periferie nere o i capanni dei mezzadri si trasformavano in una sorta di club: i juke joint appunto. Come il garage di Mr. Gip, questi posti erano situati in aree lontane dai centri abitati. Nei juke joint si esibivano artisti diversi che con chitarra e armonica in mano giravano per i vari locali portando e diffondendo il loro stile di blues. E spesso lo facevano solo in cambio di cibo e dei dollari sufficienti per raggiungere il juke joint successivo.

“Suonavano il vecchio blues”, racconta Mr. Gip. “Quello che veniva dal profondo dell’anima, che cantava del lavoro duro nei campi di cotone e della tristezza di essere schiavi”.

Grazie a questo genere musicale i neri sono riusciti a superare le brutture della schiavitù e della segregazione, perché i canti blues erano un modo per sfogare la rabbia, la frustrazione e vincere la paura. Mr. Gip è convinto che il blues sia stato il dono di Dio alla popolazione di colore, per aiutarla a affrontare quella vita così dura.

Ed è proprio nei juke joint, locali senza nome o insegne, che questo genere musicale ha trovato il terreno fertile dove svilupparsi. Ma se prima questi posti erano troppo numerosi per esser contati, col tempo, come morivano i proprietari, anche i juke joint chiudevano. E ora facendo uno sforzo di memoria Mr. Gip ne ricorda altri quattro come il suo sparsi tra il Mississippi, la Louisiana e il Tennessee.

Al Gip’s Place il tempo sembra essersi fermato. Il garage è quello di una volta. Le mura sono dei fogli di compensato. Il tetto è un semplice pezzo di lamiera. Le ampie finestre ritagliate artigianalmente sono chiuse d’inverno da spessi fogli di plastica. L’illuminazione è fatta da tantissime lucine di Natale, mentre le pareti sono letteralmente coperte da poster con ritratti di musicisti, locandine di concerti blues, e immagini di Gesù Cristo. Un miscuglio di sacro e profano che racconta sessant’anni di storia del blues e descrive l’anima di questo posto.

Xmas lights at Gips

La porta che dà sul palco è decorata dagli autografi lasciati dai musicisti che si sono esibiti. E su questa piccola struttura di legno sono saliti personaggi come Muddy Waters, John Lee Hooker, Paul Butterfield, Bob Dylan, T-Model Ford, Willie King e tanti, tanti altri. Una tradizione che si è conservata. Ogni sabato sera infatti il palco è riservato alle migliori band del Sud e non solo.

“Suonare in questo posto è il sogno di ogni musicista blues. È come tornare indietro nel tempo, tornare alle origini di questa musica, perché il blues è nato in posti come questo”, mi spiega la cantante Diedra, chiamata anche The Alabama Blues Queen.

“Dovunque guardi c’è qualcosa che racconta un pezzo di storia del blues e poi c’è Mr. Gip e – aggiunge – l’emozione che si prova a suonare davanti a una leggenda del blues è incredibile”.

L’unica differenza rispetto al passato è che oggi al Gip’s Place si esibiscono musicisti bianchi e neri.

“Il colore della pelle qui non esiste”, ci tiene a sottolineare Mr. Gip. “A casa mia poco importa se uno è bianco, nero, o giallo, se è un ultra laureato o un operaio. Qui siamo tutti uguali, uniti dall’amore per il blues e dal timore di Dio”.

E le serate in questo juke joint iniziano con la preghiera (Mr. Gip è molto religioso e poi siamo in Alabama!) seguita dalle regole della casa: il colore della pelle non esiste, rispetta quello che ti sta accanto, torna a casa con la donna con la quale sei arrivato.

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Ma sbrigate le formalità è la musica a farla da padrona. Di solito è Mr. Gip con il suo blues antico, quello che arriva direttamente nel centro delle emozioni, ad aprire le serate. Poi il palco è lasciato alle band. La piccola pista da ballo si riempie allora di bianchi e neri di tutte le età. Una scena rara in Alabama dove nonostante la segregazione sia finita più di cinquant’anni fa le due etnie vivono ancora in mondi separati che difficilmente si incontrano.

I bianchi hanno paura dei neri e i neri non si fidano dei bianchi. I bianchi vivono nei quartieri bianchi, i neri nei quartieri neri. Le scuole pubbliche migliori continuano a essere nei quartieri bianchi. E in America si può frequentare solo la scuola del quartiere in cui si vive. Se un nero compra casa in un quartiere bianco, i bianchi si preoccupano perché il valore della loro casa potrebbe deprezzarsi a causa del colore di pelle del vicino. E per questo hanno escogitato tanti piccoli trucchi per tenere i neri nei quartieri neri.

Uguali, ma separati, si dice da queste parti (questo motto vale purtroppo per tutto il Paese, anche per il Nord). E la separazione continua anche nel blues. Ci sono locali blues per neri e per bianchi. Quando chiedi il perché nessuno te lo sa spiegare. È stato così per tanti anni e continua per inerzia.

Una cosa è comunque certa, le ferite della segregazione non si sono rimarginate. I neri ricordano il passato, i bianchi si vergognano e vogliono dimenticarlo.

Mr. Gip il passato l’ha sepolto, perché se si serba rancore, mi spiega, non si può suonare il blues.

“[Dopo l’aggressione degli uomini del Klan] non riuscivo più a suonare. Il mio cuore era rigido e anche le mie dita. Sognavo solo la vendetta e il blues non veniva fuori. Liberai allora il cuore dall’odio e le dita iniziarono a muoversi”.

Da mangiare e da bere al Gip’s Place bisogna portarselo da casa, perché, come ci tiene a sottolineare Mr. Gip, “questo posto non è un bar, ma un vero juke joint”.

Al Gip’s Place non si paga il biglietto d’ingresso, ma si lascia un’offerta per la band ed è questa la retribuzione su cui i musicisti possono contare. “Non si suona per il compenso, ma per l’energia che questo posto offre”, mi spiega Cedric Burnside, musicista del Mississippi che proviene da una famiglia di musicisti blues (suo nonno era il mitico RL Burnside).

“Qui si può sempre contare su un pubblico eccezionale, di veri amanti del blues”.

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Ed è questa atmosfera che attira musicisti e pubblico. E poi c’è Mr. Gip: alto, magro, il volto solcato dai profondi segni della vita. La pelle d’ebano ereditata dal padre afroamericano e i lineamenti eleganti della madre Cherokee, la tribù indiana che una volta abitava gli ampi spazi dell’Alabama. Porta sempre un panama a falde larghe e tiene una bottiglietta di Moonshine (grappa distillata in casa) in tasca.

Gli chiedo quanti anni ha e, nel suo inglese popolare dalla dolce cadenza del Sud, mi risponde che non lo sa di preciso. “Forse 90, o 96, o qualcuno in più o in meno”.

Mr. Gip non ha mai avuto un certificato di nascita, cosa molto comune per i neri della sua età.

Da giovane ha fatto l’operaio nelle ferrovie e poi il becchino nel cimitero di Pine Hill, che anni fa si è comprato. Ora di giorno, quando non ha una tomba da scavare, ascolta nel suo backyard (cortile dietro casa) i giovani che aspirano a suonare il blues. Gli dà consigli, gli mostra alcuni accordi e si emoziona come un bambino quando sente che qualcuno ha talento.

“Il blues è la mia vita e deve essere tramandato ai giovani, deve continuare a vivere”, mi dice.

Il Gip’s Place non è infatti un semplice juke joint, ma una vera scuola di blues. Molti artisti di Birmingham hanno imparato a suonare da Mr. Gip. Uno di loro, Earl “Guitar” Williams ha raccontato una sera di come da bambino, negli anni Sessanta, aspettava impaziente che Mr. Gip tornasse dal lavoro per suonare con lui la chitarra.

“Grazie maestro!”, gli ha cantato.

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E in onore di questa leggenda del blues dell’Alabama il 7 maggio, a Bessemer, si terrà il primo Gip’s Juke Joint Festival, un evento che si ripeterà tutti gli anni e che radunerà le migliori band blues del Sud, promette Diedra the Alabama blues Queen, una delle organizzatrici del Festival.

“Abbiamo pensato di organizzare questo festival per mostrare amore e gratitudine a Mr. Gip che ha fatto così tanto per il blues dell’Alabama”, mi spiega Diedra.

In una delle nostre lunghe interviste, Mr. Gip mi confessa d’esser felice: “Dio mi ha dato la possibilità di fare quello che nella vita mi è sempre piaciuto: suonare e cantare il blues e diffondere questo genere di musica”.

“Che vuoi di più?”.

Per sapere quello che succede al Gip’s Place basta iscriversi alla loro pagina facebook

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  • Autore articolo
    Francesca Mereu
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