Il 4 febbraio 2025 Ginette Kolinka festeggerà 100 anni. Ne aveva fatti da poco 19 quando, nell’aprile del 1944, fu deportata ad Auschwitz insieme al padre, il fratellino e il nipote. Sarà l’unica di loro a fare ritorno dai campi ed oggi è una delle ultime sopravvissute della Shoah in Francia.
19 anni è anche l’età che ha Aurore d’Hondt quando ascolta per la prima volta la testimonianza di Ginette. Ne è talmente colpita, che quando gli studenti della sua scuola di ingegneria sono invitati a organizzare una mostra a partire dalle parole dell’anziana sopravvissuta, lei realizza una serie di disegni che presenterà alla stessa Ginette. Quelle tavole sono il nucleo iniziale di un progetto a cui si dedicherà anima e corpo: un fumetto biografico scritto a quattro mani proprio con Ginette Kolinka, che si rivolge con grande semplicità al giovane pubblico senza nascondere niente dell’orrore che hanno rappresentato i campi di sterminio nazisti né dei pensieri e delle azioni non sempre nobili della protagonista.
Anzi, il tratto semplice delle d’Hondt, che è una fumettista autodidatta, rende quasi più vivido il processo di disumanizzazione subito dai deportati. Sembra impossibile immaginare i suoi personaggi dai visi arrotondati e sorridenti rasati a vivo, confusi tra una massa di persone costrette a fare i propri bisogni in latrine accanto a cui si cucina, massacrati di botte per una parola sbagliata, spinte a picchiarsi per una razione di pane o costrette ad ammucchiare i cadaveri delle compagne di dormitorio morte nella notte in tempo per l’appello della mattina. Via via che il racconto e il tempo scorre, i tratti cartoonistici si asciugano e si trasformano, rendendo visivamente conto del processo di indurimento morale e di decadimento fisico che subiscono Ginette e le altre deportate. Anche la scelta del bianco e nero è funzionale alla semplicità del segno e si adatta sia ai momenti più felici e leggeri della vita di Ginette, l’infanzia parigina, la vita ad Avignone nel periodo dell’occupazione tedesca, che alla sofferenza dei campi, rigorosamente disegnati su sfondo nero. La rinuncia al colore contribuisce a renderne l’atmosfera lugubre, la consistenza del fumo dei camini che si appiccica alla pelle e il gelo dell’inverno.
In realtà l’anno che Ginette Kolika vive nei campi, da cui uscirà malata di tifo con la liberazione russa di Terezin, tappa finale di un periplo che l’aveva portata anche a Bergen-Belsen, è condensato nella parte centrale del libro. Che, come dicevamo, evoca prima di tutto l’infanzia felice e la famiglia numerosa e sostanzialmente atea, che aveva fiducia nello stato francese, per cui del resto il padre si era battuto nella prima guerra mondiale. Ma evoca anche il poi. Per cinquant’anni Gilette Kolinka non parlerà praticamente mai con nessuno di quello che ha subito, della morte del padre e del fratello, gasati all’arrivo ad Auschwitz, del numero di matricola tatuato sul braccio: 78599. Lavorerà al mercato, metterà su famiglia, seguirà orgogliosa il percorso del figlio, diventato batterista dei Téléphone, una delle band più famose di Francia, senza mai parlare della deportazione.
È solo nel ’96 che un membro della fondazione Spielberg insiste per raccogliere la sua testimonianza. Reticente, Ginette si scopre un fiume in piena. E da allora non ha mai più smesso di raccontare e di girare il paese per far sentire la sua voce prima che sia troppo tardi. Anche questo romanzo grafico è un modo per lasciare una traccia della sua testimonianza. Nella prefazione ci avvisa:
Un odore non si descrive. Non potete immaginare come sia fare i bisogni in una baracca tra centinaia di donne, schiena contro schiena. Senza neanche un pezzo di carta e nemmeno le mutande addosso. Voi non potete. Io sì. Non dimenticate che la causa di tutto questo è l’ODIO.
Ginette Kolinka. Di Aurore d’Hondt. Traduzione di Stefano Andrea Cresti. 240 pagine in bianco e nero. Becco Giallo. 22 euro.