Sembrano passati secoli dal movimento di Gezi Park. Piazza Taksim a Istanbul sembrava un’altra piazza Tahrir, quando ancora Primavera araba era un termine connotato di speranza. Era il 27 maggio 2013 quando tutto cominciò: il parco divenne un campus autonomo per la nuova società civile di sinistra in Turchia. All’inizio i manifestanti erano una cinquantina, riunitisi al parco per evitare che al suo posto sorgesse un mega centro commerciale. Quella protesta poi montò, tanto da chiamare a sé forze fuori, che cercavano solo di costruire una nuova società civile. Morta sul nascere, stando alle notizie cariche di paura di cui è protagonista la Turchia in questi giorni.
M. era lì dall’inizio. Oggi non si può neanche scrivere il suo nome perché il lavoro che fa, la ricercatrice, è pericoloso in Turchia. Quattro suoi colleghi solo per aver firmato una dichiarazione in cui, in sostanza, chiedono al governo di ristabilire un clima di pace nel Paese. Tre di loro finiscono in cella il 15 marzo con l’accusa di fiancheggiare organizzazioni terroristiche. “Quali – si chiede M. – visto che in Turchia, a mio parere, gli ultimi tre attentati (l’ultimo del 13 marzo, ndr) sono stati commessi da tre organizzazioni diverse: qualche parte deviata dello Stato, Isis e il Pkk”. Si vede che è ancora sotto shock: i colleghi con cui divide lavoro e causa sono in manette. Non sa se la stessa disgraziata sorte possa riguardare anche lei.
La questione curda è quella che le fa più male. Ripensare a tre anni fa, quando la sinistra turca e i curdi erano insieme a condividere spazi e concetti: “Anche senza esprimerlo, condividevamo una stessa idea di fondo: rendere più democratica la Turchia, salvaguardare le sue autonomie, garantire autodeterminazione e autogestione. In questo i curdi sono sempre stati maestri”. Già allora, però, la narrativa curda imbottiva la testa dei militanti con leggende e mitologie prive di fondamento per accrescere quel nazionalismo già insito in un popolo non riconosciuto, mentre dall’altra parte i turchi di sinistra snobbavano la presenza curda. “Non c’erano a Gezi secondo loro”, ricorda M.
Cosa ha lasciato quella spinta creativa tre anni dopo? “Ah, me lo sto chiedendo ancora io”, confessa M. Quello che le resta più caro è dove invece di tracce non ne ha lasciate. O meglio, non come avrebbe dovuto. “Si continua a pensare che la politica siano solo i partiti, quando invece a Gezi discutevamo di pratiche condivise, di comunità, di bene comune”. M. ha un progetto che ricorda in qualche modo i nostri Gas, Gruppi di acquisto solidale. Con alcuni amici ha contattato dei produttori di beni alimentari dentro e fuori Istanbul per trasformarli in fornitori di un gruppo di acquirenti interessati a sostenere un certo modo di fare agricoltura. E’ fare politica, anche se molti non sembrano capirlo: “Non abbiamo mai superato i dieci partecipanti, anche se l’interesse pare sempre molto maggiore”, dice con un sesno di amarezza. Il gruppo di persone che si espone è sempre lo stesso sparuto gruppo. “Ci sentiamo soli, è inevitabile”.
La frammentazione delle energie che avevano sostenuto la protesta di Gezi è forse una delle chiavi per capire lo stato della Turchia ad oggi, riflette M. Il potere è sempre più audace: gioca al rimpiattino con l’Europa per alzare la posta in palio per la gestione dei migranti e al contempo schiaccia ogni forma di opposizione nella maniera più antidemocratica. E dov’è il movimento di Gezi? “Non credo sia la paura che ci ha diviso – dice M. – almeno non all’epoca”. Sono le incrostazioni di movimenti che non si sono mai piaciuti fino in fondo, impigliati come sono in forme diverse di nazionalismo e di tradizionalismo che non si scrollano di dosso.
L’ultimo nodo sono i negoziati di pace Ankara-Kurdistan. Anche in questo caso sembra di parlare di ere geologiche fa, ma in fondo sono solo tre anni. “Non si sapeva nulla, se non dichiarazioni di principio sul piano sociale e dei diritti. Quando si è cominciato a parlare di autonomia o di statuto speciale, la discussione è diventata top secret per volontà di entrambi i negoziatori”. Un’occasione persa per eliminare il tabù della questione curda dalla case, in cui mai si menziona la guerra che si combatte nel Sud est del Paese. Quel naufragio della speranza di tre anni fa ha fatto di nuovo dei curdi il nemico ideale. Insieme all’Isis.