In Francia è stata presentata una legge contro l’apartheid sociale.
“Non il solito piano Marshall, che si ripresenta ciclicamente” ha detto il Primo ministro Manuel Valls, ma misure precise che si basano su tre obiettivi principali: “Vivere nella Repubblica”, “La Repubblica per tutti” e la “Repubblica nella vita quotidiana”.
Pane e Repubblica insomma.
Proprio quella che, ciclicamente, la Francia si rende conto di non aver condiviso con tutti i suoi cittadini.
E’ una realtà che appare evidente ogni volta che ci sono gli attentati sul suo territorio, in cui è vittima la popolazione civile; oppure in maniera più contenuta quando scoppiano rivolte o violenze nei quartieri definiti “difficili”.
Chiaramente non si può mettere tutto nello stesso calderone. Ma che la Repubblica tanto declamata non sia per tutti, resta la radice comune di fenomeni che prendono traiettorie diverse. Il governo francese lo sa da decenni, tanto che il premier Valls è stato il primo dopo gli ultimi attentati ad aver ammesso che esiste in Francia “un apartheid territoriale, sociale ed etnico”.
Di qui ora la proposta di una legge che vuole rompere la logica dei ghetti, dove vige in un circolo vizioso povertà legata soprattutto alla discriminazione. Ora si parla di evitare le nuove cité, appunto i casermoni delle banlieues, diventati l’emblema dell’esclusione sociale; si vuole invece puntare alla costruzione di almeno il 25% di alloggi popolari in comuni con più di 3.500 abitanti.
“Basta relegare” dice il governo, puntiamo ad amalgamare diverse realtà sociali. Insomma, ridistribuire le famiglie meno agiate tra gli oltre 4 milioni e mezzo di appartamenti popolari presenti in Francia.
Ma da quando Parigi si è accorta che i ghetti erano un male? Almeno dalla fine degli anni Settanta, per poi iniziare le famose politiche di rinnovamento dagli anni Ottanta. Come ad esempio alla Courneuve, una cité che alla sua nascita, nel 1964, presentava 4000 alloggi a Seine-Saint-Denis,alle porte di Parigi.
La Courneuve, composta da 4 gigantesche ali, ha accolto migliaia di abitanti che la capitale non poteva ospitare, tra cui moltissima popolazione proveniente dal Maghreb. In poco tempo si è trasformata in un luogo emblema dell’esclusione, tanto che Jean-Luc Godard nel suo film del 1967 Due o tre cose che so di lei fa dire alla voce fuori campo “L’attuale organizzazione della regione parigina permette al governo di realizzare più facilmente la sua politica di classe”.
Qui si respira precarietà, alienazione, povertà e certo anche degrado. Così negli anni Ottanta la deriva è già insanabile e per tutta risposta si cominciano a far saltare in aria, con quintali di dinamite, pezzi della struttura ormai fatiscente.
Nel 1986 si fa esplodere l’ala Debussy, con 300 appartamenti. Negli anni successivi toccherà alle altre mega strutture della Courneuve, tra cui l’ala Renoir, Ravel e le petit Balzac. Vengono costruiti nuovi immobili e progressivamente viene ricollocata la popolazione che viveva nella cité.
Ora la Francia vuole rilanciare il sistema scolastico e diffondere il senso di cittadinanza con lezioni di educazione civica, mentre nei quartieri definiti “difficili”, il tasso di povertà e disoccupazione crescono.
Il 24 per cento della popolazione non ha lavoro, per i giovani dai 15 ai 25 anni si sale al 45 per cento. Il doppio rispetto a chi non vive nelle banlieues. In questa situazione, resta un divario profondo da colmare per una società che per anni ha visto protagonista sulla scena politica Nicolas Sarkozy, che nel 2005 di fronte alle cité in fiamme aveva definito i manifestanti “feccia da far scomparire”.
Effetti collaterali. Popolazione civile in pericolo è la rubrica a cura di Cristina Artoni, in onda ogni lunedì su Radio Popolare alle 9.20