“Toglietevi la siringa dal braccio, toglietevi il bicchiere dalla bocca e andate a votare, registratevi e andate a votare come delle bestie”: così Frank Zappa in uno dei frammenti di parlato con cui il musicista americano è stato evocato nel corso dell’esibizione dell’ottetto di Andrea Massaria alla trentunesima edizione del festival di Sant’Anna Arresi Ai Confini tra Sardegna e Jazz.
Il suo Zappa Speech Project è imperniato proprio su brani elaborati a partire dalle caratteristiche prosodiche (intonazione, ritmo, intensità, accenti, eccetera) dei frammenti di parlato di Zappa, tratti per lo più da interviste. Con Massaria alla chitarra, sono sul palco Giovanni Mancuso al piano e alle tastiere, Pasquale Mirra al vibrafono, Danilo Gallo al basso, Bruce Ditmas e Cristiano Calcagnile alle batterie, Walter Prati e Patrick Lechner, live electronics. Free, rock, funk, suoni elettronici, e dentro, qua e là, senza eccedere, la voce di Zappa che fa capolino: ritmi sbilenchi, sfasamenti, atmosfere spesso sospese, mantenute in uno stato di non risoluzione, che non si adagiano, molta libertà, capacità estremamente matura di gestire situazioni aperte, informali, ardite, e di tenere alta la tensione della musica in un impasto incalzante, denso, ma anche con bei momenti di rarefazione, come quando la chitarra di Massaria rimane da sola in un ambiente di suoni elettronici.
Spesso più che a Zappa parrebbe un omaggio al Davis elettrico, visionario, delirante, funk, dei primi anni Settanta, ma il senso del resto non è certo quello di fare della musica alla Zappa. Tutti bravissimi: Massaria a pensare il progetto e a guidare una musica così avvincente; Mancuso nell’alternarsi sapientemente fra le tastiere, con cui contribuisce al sound e al piglio delle sequenze davisiane, e il piano, con cui crea invece momenti che in maniera non banale evocano Cecil Taylor; Mirra nell’intervenire illuminando la musica con intelligenza, fuori dai cliché vibrafonistici; Gallo con l’autorevolezza ma anche la varietà di attitudini del suo basso ruvido e perentorio; Ditmas e Calcagnile nello spessore, nell’energia e nella non convenzionalità della spinta che assicurano; Prati e Lechner nella vivacità ma anche nella misura dell’elettronica. Un lavoro che c’è da augurarsi possa avere una larga circolazione in Italia e all’estero.
In una gran bella serata di musica, una delle prime del festival (che prosegue fino a sabato 10), domenica sera l’ottetto di Massaria è stato preceduto dal quartetto Rubatong: intorno alla voce di Han Buhrs, forte, aspro ed espressivo, con corrosivi testi in inglese, olandese e francese, ci sono alla chitarra basso Luc Ex, componente dello storico gruppo punk olandese The Ex, alla chitarra elettrica René van Barneveld, e al vibrafono e alle percussioni Tatiana Koleva. Il loro è una sorta di blues-punk di gusto avantgarde, che colpisce per un impatto che non ha bisogno di una gran quantità di suono e di volume: tanto energico e ruvido quanto essenziale e agile, con momenti anche molto fini, rarefatti, sofisticati; scarna e di grande resa la declinazione del blues di van Barneveld. Da ascoltare l’album Rubatong (etichetta Red Note, 2011).
A parte la loro pertinenza in una edizione del festival dedicata a Zappa, che dal Coro di Bitti rimase affascinato, il gruppo dei più famosi tenores sardi in una manifestazione consacrata a musiche della contemporaneità funziona, con una musica che arriva dalla profondità dei tempi, come un potente promemoria: ricorda a che capacità di emozionare la musica di oggi debba aspirare, e a che grado di integrità artistica debba attenersi.
Zappa parlò a proposito del canto a tenore sardo di “musica bovina”: al di là dello humour del personaggio, la definizione non è in realtà né irrispettosa né priva di un suo elemento di realtà. Nelle delucidazioni che ha impagabilmente offerto al pubblico nel corso dell’esibizione del Coro di Bitti, il più anziano dei quattro cantanti della prestigiosa formazione ha spiegato fra l’altro che il canto a tenore affonda le sue radici in un remoto passato, che alle sue origini, trattandosi di una tradizione orale, non è possibile mettere una data precisa, e che secondo alcuni musicologi uno degli aspetti tipici di questa forma espressiva, il particolare modo di cantare delle sillabe che non hanno significato, sarebbe derivato inizialmente dall’imitazione di versi di animali.
Non un omaggio, per quanto indiretto, a Zappa, che non è stato neanche nominato, ma una semplice informazione, all’interno di una esibizione che è stata anche una deliziosa lezione sul canto a tenore. Così sereni, sicuri di sé, nella loro rocciosa identità, da non aver bisogno di ammiccamenti, o di apparire aggiornati. Parecchi anni fa, sul palco di Ai Confini tra Sardegna e Jazz, in un concerto che arrischiava una ardita traduzione pratica dell’intestazione della rassegna, il Coro di Bitti si esibì, senza fare una piega, assieme a Ornette Coleman: e c’è da sperare che il festival, che sta lavorando sui propri archivi, pubblichi presto la registrazione di quell’evento.