Salvatore Montefusco ha 72 anni e per lui una condanna a 30 anni o all’ergastolo fa probabilmente poca differenza.
Ne fanno, invece, per noi come società, le parole usate per concedergli le attenuanti.
I giudici parlano di “comprensibilità umana” del gesto, e si mettono nei panni dell’assassino. Usano le sue stesse parole riferite in aula, “black out emozionale ed esistenziale che lo avrebbe condotto ad imbracciare l’arma” e a sparare. Traduciamo black out con raptus, e siamo di fronte agli abusati stereotipi sulla violenza di genere. Non è l’uomo ad uccidere, è qualcosa di simile ad un demone che si impossessa di lui e gli impedisce di decidere. Il demone, naturalmente, è risvegliato dal comportamento delle vittime.
Chi frequenta i centri antiviolenza sa che il femminicidio non è mai il primo gesto di violenza, ma l’ultimo di una lunga serie. Montefusco era stato denunciato dalla moglie sei volte. Gli stessi giudici hanno condannato l’assassino per maltrattamenti, Montefusco ha ucciso il giorno prima dell’udienza di separazione. Si era procurato un’arma, illegalmente. Ha sparato prima alla figlia della moglie, per evitare che rientrasse nella linea di successione, e le ha mostrato così che avrebbe sterminato tutto quanto era suo.
Secondo i giudici l’uomo viveva una condizione di profondo disagio, umiliazione ed enorme frustrazione. E’ questo umanamente comprensibile? Solo se si considera che Gabriela Trafandir non avesse la libertà e il diritto di separarsi, di liberarsi dell’uomo che la maltrattava. Solo se si pensa che dovesse essere una moglie devota, una proprietà del marito, pari alla casa dove vivevano e che lui aveva paura di perdere.
I giudici non hanno potuto sentire e riportare nella sentenza le parole di Gabriela e Renata Trafandir, perché la loro vita è stata portata via a 47 e 22 anni.