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Fatoumata Diawara: quando il blues cresce all’ombra dei baobab

Fatoumata Diawara

In occasione del concerto milanese del 26 novembre, abbiamo sentito la musicista maliana Fatoumata Diawara. 37 anni, maliana, candidata ai recenti Grammy Awards 2019.

Qui l’audio integrale dell’intervista:

“Fenfo” significa “qualcosa da dire” in bambara. E di cose da dire, Fatoumata Diawara, ne ha davvero parecchie. Lo fa anche con il suo ultimo disco, che non a caso si chiama “Fenfo”. È un’esortazione al rispetto dell’identità africana?

Sì, sì, credo che sia ora che la nuova generazione africana prenda in mano la situazione. È ora di cercare di rappresentare l’Africa in un altro modo. Perché l’Africa che conosce l’Occidente non è la vera Africa. Certo, quando guardiamo il lato materiale delle cose, all’esterno vediamo la povertà ma il cuore dell’Africa è povero. Le persone sono molto generose nell’animo. Sono umili e hanno molto amore da dare agli altri. Sono cose che vanno valorizzate. E non dimentichiamo che il sottosuolo è ricco, eh? Non è un continente povero o miserabilista, non bisogna sempre piangere per l’Africa. Con la mia musica cerco di parlare dei problemi africani ma in un modo normalissimo, perché tutti hanno dei problemi a questo mondo e non vedo perché dovremmo piangere i problemi africani, come se fosse un continente di bambini. Lo scopo è di presentare l’Africa in un modo più dignitoso, più ragionevole.

Nel brano Kokoro dici: “Sorella, smetti di pulire la tua pelle con sostanze chimiche per sembrare bianca, sorella mia, basta coprirti la testa per assomigliare agli arabi”. Una forte sottolineatura sull’importanza dell’accettazione di sé stessi.

Esattamente, bisogna imparare ad accettarsi, bisogna andare con la schiena dritta. È ora di fare i conti con noi stessi. Perché, certo, abbiamo ragione a dire che l’Occidente ha fatto questo e quest’altro, ma se noi stessi non siamo pronti ad accettarci in primis, come possiamo iniziare a rinfacciare all’altro le cose che ha fatto? Penso che sia ora che iniziamo ad accettare la nostra pelle così com’è, che ci amiamo per come siamo e poi il mondo ci amerà. Perché il mondo è grande e ci sono molte persone che amano la verità. Io lo vedo durante i miei concerti: vedo che le persone amano che io sia sincera. Amano il fatto che io sia me stessa, che non finga. E questa verità dobbiamo difenderla, ma come possiamo difenderla se non siamo noi stessi naturali?
Per questo cerco di sensibilizzare le nuove generazioni perché si accettino davvero. Accettino di essere africani, di non vergognarsene o averne paura.

Una tematica controversa è quella delle migrazioni sud-nord e l’hai raccontata nella tua canzone Nterini.

Sì, parlo dell’immigrazione perché, sapete, non possiamo imparare tutto a scuola. Certe conoscenze le acquisisci solo viaggiando. E le nuove generazioni vedono così tante cose sui social network che le spingono a partire. Ma non sono persone miserabili, sono persone che hanno delle famiglie, una storia, un’educazione… Molti di loro sono andati a scuola, sono stati educati. Si mettono in viaggio perché sono curiosi e quando viene loro rifiutato il visto per partire normalmente, come delle persone normali, loro si forzano un cammino. Solo che poi quando parliamo di immigrazione parliamo di queste persone come se arrivassero dal nulla. Come se non venissero da qualche parte, come se la loro storia iniziasse sul mare, sul Mediterraneo.
Ma in realtà la loro vita inizia prima del Mediterraneo. Hanno una vita in Africa, hanno una famiglia, sono andati a scuola, bevono il caffè come chiunque… In uno dei miei video mostro un migrante che beve un caffè… sono esseri umani normalissimi! Bisogna solo lasciarlo viaggiare come vuole e poi tornerà a casa sua, un giorno tornerà a casa. Ma più si cerca di impedire ai giovani di partire, più si risveglierà in loro la fierezza di voler partire, l’orgoglio di mettersi in viaggio. Io penso che se davvero vogliamo fermare i flussi migratori, dobbiamo autorizzare tutti quelli che vivono su questa terra a partire quando vogliono. E vedrete che poi le persone torneranno a casa perché nessun posto è come casa propria. E poi il mondo si è costruito con le migrazioni. Tutti migrano, e fanno bene, tanto meglio!

Essere musicista in Africa equivale ad avere ruoli ben definiti, spesso le donne cantano e gli uomini compongono e suonano. Tu hai iniziato la tua carriera suonando la chitarra, rompendo gli schemi tradizionali che lo considerano sconveniente per una ragazza.

In effetti, soprattutto nella mia tradizione, è vero che suonare uno strumento non era frequente, non si fa quasi mai. Sono sempre gli uomini che suonano e la donna che canta. E mi rendo conto che non è nemmeno solo in Mali che è così, è un po’ universale, purtroppo. Bisognerebbe che le donne suonino più spesso degli strumenti. Io vengo da una tradizione musicale molto forte e, a Parigi, ogni volta che lavoravo con dei musicisti, cercavano di portarmi verso un mondo che non amavo per nulla. Siccome ho dei dreadlocks, volevano che facessi del reggae e io dicevo: “ma no, sono africana! Voglio suonare la mia musica!”. Non riuscivo a comunicare con le persone sul piano musicale. Se fossi stata in Mali non sarei diventata musicista, perché in Mali ci sono musicisti ovunque ed è tradizione che gli uomini accompagnino. Ma siccome ero a Parigi e a Parigi non avevo la scelta che volevo, pur essendo assetata di musica e volendo fare qualcosa con della musica tradizionale e restare naturale ma anche esplorare la musica blues, rock, pop, allora mi sono detta che per trovare il mio universo, il mio stile musicale, dovevo prendere le cose in mano. E così sono andata a comprarmi la mia prima chitarra, ho studiato dei manuali per imparare a suonare e ho iniziato a suonare a Parigi. È così che sono diventata chitarrista. Poi mi sono resa conto che di chitarriste soliste ce ne sono parecchie, ma nel mio paese, in Mali, di donne soliste non ce ne sono. Quindi mi sono detta che sarei stata la prima solista. Ho iniziato a comprare degli effetti quando suonavo negli Stati Uniti, non costava tanto. E ho iniziato a suonare la musica del Mali su questi effetti elettronici, vi ho aggiunto del rock e alla fine ho capito che la musica del Mali può adattarsi a tutti gli stili. Perché è alla base della musica blues. Mi sono resa conto che avevo davvero la possibilità di spaziare, di esplorare la mia musica: poteva essere pop, rock e jazz allo stesso tempo. Perché la radice musicale del Mali è davvero forte.

Prima di essere musicista, sei stata attrice; probabilmente qualche ascoltatore ti avrà vista sul grande schermo nell’acclamato Timbuktu di Abderrahmane Sissako. È una carriera che hai abbandonato solo momentaneamente?

No, sono sempre un’attrice. In questo momento lavoro su un progetto teatrale che dovrebbe iniziare nel 2020, inshallah. Il mio ultimo film è stato Yao, con Omar Sy che è uscito lo scorso febbraio. Faccio dei film in base a quello che mi interessa, faccio delle scelte anche in base ai miei impegni. In questo momento siamo in tournée e sono stata in giro fino all’ottavo mese di gravidanza, poi mi sono fermata un mese e ora ricomincio. Quindi è una questione di calendario perché amo molto il palco e amo cantare, quindi sui film faccio delle scelte. Scelgo i film che vorrei fare.

Tu sei figlia d’arte; le tue zie sono cantanti, tuo nonno era un suonatore di kamel ‘ngoni (un’arpa tradizionale). Sono state importanti per te queste esperienze familiari?
È stato tutto molto formativo per me perché sono cresciuta avvolta dalla sonorità. La musica del Mali è come la musica hindu, ha un suono. Come la musica cinese o asiatica. È davvero tipica. Perché usiamo degli strumenti che si trovano solo in Mali e in certi paesi Moundang (popolo dell’Africa Centrale) come la kora, il ‘ngoni, il balafon. Il kamele ‘ngoni è uno strumento tipico del mio villaggio, della mia regione. Quindi quando sento quelle sonorità mi sento me stessa e sono nella miglior posizione per difendere la mia verità che è una verità musicale e scenica. È questa trasparenza che il mio pubblico ama molto, il fatto che io sia me stessa. Amo molto il kamele ‘ngoni perché è la mia identità. Anche nelle mie canzoni più pop, si sentiranno sempre in sottofondo delle note di kamele ‘ngoni o kora o balafon. Per ricordare alle persone che anche se la musica sembra così pop, parto da qualche parte e questa base è la musica blues, è la mia identità ed è molto importante per me.

Con Amadou e Mariam, Oumou Sangaré e Toumani Diabaté, hai fondato un supergruppo per cantare in favore della pace nella vostra Terra. Ci parli del progetto?
Avevo creato quel progetto, che si chiama Maliko, nel 2012, quando il Mali stava affrontando una grande crisi. C’era stato un colpo di Stato e non c’era un presidente. In quel momento ho deciso di fare una pausa dalla mia tournée, quella del mio primo album che era uscito l’anno prima. Avevo tutti gli occhi del mondo su di me grazie alla mia tournée mondiale e mi sono detta: “Sai cosa? È bello cantare ma se il tuo Mali non sta bene e la musica è in pericolo, è un po’ come se io stessa fossi in pericolo. Così ho fermato il tour e sono andata in Mali. Ho riunito tutti gli artisti del Mali, cosa che non era mai successa prima, e abbiamo preso la parola. Perché non c’era un presidente e in quel momento siamo diventati gli ambasciatori del paese e nella canzone abbiamo parlato di come si può cercare di evitare di iniziare una guerra. Perché iniziare una guerra è facile, come è facile appiccare un incendio. Ma per spegnerlo ci vuole molta energia. Quindi abbiamo detto alla gente: “è facile. Noi canteremo ma voi riflettete con le vostre teste. Non iniziate la guerra, perché se iniziate ad uccidervi a vicenda, beh… Perderete una o due generazioni in una guerra inutile”. Perché in fondo siamo tutti uguali, condividiamo le stesse sonorità, la stessa musica blues. Tinariwen, Amadou & Mariam, Tiken, Toumani, io… Siamo tutti uguali. Allora ho composto una canzone che legasse tutte queste sonorità delle diverse regioni del Mali in un solo ritmo, per cinque minuti. E la canzone ha funzionato, ha avuto un effetto molto importante nel Paese e in positivo. Ancora oggi le persone riflettono sul fatto che non si può iniziare una guerra così, stupidamente. È una bella cosa e mostra l’importanza della musica in Mali: la musica è anche politica. Una politica dolce, dell’amore e non della violenza.

Hai avuto una vita nomade sin da bambina: nata in Costa d’Avorio da genitori maliani, all’età di nove anni sei andata a vivere con una zia a Bamako, capitale del Mali. Dove hai casa ora?

Sono sposata con un italiano quindi ho una casa sul lago di Como e ho una casa a Bamako. Quando non sono in Mali, ad esempio adesso che ho tre giorni di pausa dal tour, rientro in Italia a riposarmi e poi a fine mese, appena ho due settimane, vado a Bamako. Vivo quindi tra Parigi, Como e Bamako.

Hai collaborato con due prìncipi della tastiera: Herbie Hancock e il pianista cubano Roberto Fonseca, cosa ci puoi dire di questa esperienza?
Con tutti questi grandi artisti io ho un rapporto: che siano i Blur, Roberto Fonseca, Herbie Hancock o anche Bobby Womack prima che se ne andasse, con loro ho avuto delle connessioni che credo siano la verità. Ho l’impressione che con tutte queste persone ci parliamo da eguali. Ho avuto la stessa connessione con Jovanotti l’ultima volta, al Jova beach party: non ci conoscevamo, ci siamo solo sentiti al telefono e mi ha cercata su Internet. Anche io l’ho cercato sui social ma non ci eravamo mai visti. Ma quando ci siamo visti c’è stata una connessione, un qualcosa che non puoi definire perché penso che sia l’Anima vera e propria. Queste persone ce l’hanno: Roberto e Herbie ce l’hanno. Ci rispettiamo, non c’è una frontiera, un colore, un’etnia… lasciamo esprimersi la nostra anima al servizio del nostro mestiere che è la musica.

Fatoumata Diawara
Fatoumata Diawara fotografata da Aida Muluneh

traduzione di Luisa Nannipieri
Foto | Aida Muluneh

  • Autore articolo
    Claudio Agostoni
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