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Tratto dal podcast
Prisma di gio 04/06 (terza parte)
Coronavirus | 2020-06-04
Che Italia è quella che sta ripartendo in queste settimane? Ne abbiamo parlato con la sociologa Chiara Saraceno, da sempre impegnata nelle tematiche legate al cambiamento sociale e allo sviluppo demografico.
L’intervista di Lorenza Ghidini e Alessandro Braga a Prisma.
Che Italia è quella che sta ripartendo?
Forse un po’ preoccupata, giustamente. Preoccupata perché non si sa bene dove stiamo andando e che cosa succederà nei prossimi mesi. I segnali anche ieri dell’Istat non sono molto favorevoli in termini di mercato del lavoro. Molti hanno perso il lavoro e molti forse lo perderanno, penso soprattutto ai più giovani che non riescono neanche a presentarsi sul mercato del lavoro. In questi mesi siamo stati tutti fermi, chi doveva entrare nel mercato del lavoro ha dovuto aspettare e adesso si trova di fronte ad un mercato del lavoro difficile. Forse più che spaventati dal virus, si è preoccupati per il futuro. Si aggiunge anche la preoccupazione delle famiglie che non sanno bene cosa succederà con la scuola. Poi certo, vediamo anche chi sta andando in vacanza, chi ne approfitta per andare in giro a trovare gli amici. Ci sono queste immagini apparentemente contrastanti che in parte sono anche immagini di persone diverse, in condizioni diverse.
Questa emergenza ha reso l’Italia più diseguale?
Ci sono le vecchie disuguaglianze che sicuramente si sono acuite, alcune sono emerse più nettamente. Chi aveva un lavoro protetto che ha potuto continuare a svolgere, sia perché era un lavoro essenziale sia perché era un lavoro che si poteva fare a distanza, ha persino risparmiato in questo periodo. I pensionati come me hanno sicuramente risparmiato e non hanno perso dal punto di vista economico, ma hanno perso in termini di relazioni sociali e qualcuno ha perso anche un proprio caro. Però dal punto di vista del loro futuro medio o immediato non hanno preoccupazioni. E invece c’è chi è precipitato in povertà o vi è andato vicino. Si è acuita la disuguaglianza generazionale, che è una caratteristica ormai dura e costante della nostra società: i più giovani continuano ad apparire come i meno protetti, quelli quelli che prima hanno pagato la crisi del 2008 e adesso stanno pagando e pagheranno questa. Sono due generazioni successive di giovani che all’ingresso nel mercato del lavoro vedono tagliate le proprie opportunità. Queste sono disuguaglianze grosse che sono aumentate.
Questo periodo ha acuito ancora di più la disuguaglianza di genere?
Uno poteva sperare di no, nella misura in cui entrambi fossero rimasti in casa. E infatti alcuni indicatori ci sono, c’è una ricerca che ha mostrato che in alcuni casi c’è stato un 50% di uomini che hanno aumentato la propria presenza attiva, non solo fisica, nella cura dei figli e la gestione della casa, ma c’è la metà di uomini che non è cambiata per nulla. Anzi, forse ha chiesta persino di essere protetta perché c’era il disagio di aver perso il lavoro o di dover rimanere in casa. E soprattutto, a fronte della chiusura della scuola e dei servizi educativi, molte donne rischiano di non farcela. Non solo le donne sul mercato del lavoro sono più fragili già in partenza e considerate meno affidabili perché hanno il carico della famiglia, ma spesso lavorano in settori che sono più vulnerabili di altri in questa crisi, dal commercio al turismo. Quando poi hanno un lavoro, rischiano di perderlo perché non ce la fanno a tenere insieme le responsabilità lavorative e della famiglia.
Come ne esce l’Italia dal punto di vista delle divisioni e della solidarietà tra nord e sud?
Io sono abbastanza d’accordo col ministro Boccia e mi sono continuamente interrogata sul perché non siano state riaperte le scuole nel Mezzogiorno, dove c’è un tasso di elusione scolastica già altissimo. Si è dovuto seguire le stesse regole anche quando erano manifestamente non adatte. Hanno riaperto in Svizzera dove per il coronavirus c’è un tasso di mortalità quasi più alto di quello dell’Italia. Nel Mezzogiorno il tasso era veramente basso e quindi con tutte le forma di sicurezza si poteva benissimo riaprire, così come il lockdown interno poteva essere benissimo gestito diversamente. Così non è stato fatto, si è deciso di chiudere tutto il Paese e di aspettare. È vero che se non ripartono la Lombardia e il nord in generale, l’Italia tutta insieme riesca a ripartire, però questo non significa che bisogna anche impedire quel poco di ripartenza che si poteva fare in altre Regioni.