Nella questione del 41 bis, il cosiddetto” carcere duro”, c’è sempre un tabù: quella norma infatti fu fortemente voluta dal giudice Falcone, simbolo della lotta alla mafia e dalla mafia assassinato, quindi non se ne può nemmeno discutere. Ma in questa visione c’è un terribile, indecente equivoco: Falcone volle quella norma per stroncare i rapporti tra i boss in carcere e le loro cosche fuori, al tempo in cui il carcere di Palermo era soprannominato “grand hotel Ucciardone” per la libertà di cui godevano i capi clan. Giustissimo dunque il principio, così come l’intento. Peccato che poi, nell’applicazione quotidiana degli ultimi tre decenni, il 41 bis sia diventato anche qualcosa d’altro, cioè una misura vendicativa e disumana con aspetti che non hanno più nulla a che fare con l’intento di Falcone.
Che cosa c’entrano con la prevenzione antimafia cose come costringere per 23 ore su 24 un detenuto in una cella di due metri per due, dove praticamente ci sta solo la branda, con un solo spiraglio per la luce naturale e il neon sempre acceso? Che cosa c’entrano con le comunicazioni tra capi e clan cose come divieto di leggere libri, il divieto di svolgere qualsiasi lavoro manuale o di altro tipo in cella, l’espletazione delle necessità fisiologica in una turca invece che in un water, l’unica ora d’aria al giorno trascorsa in una cella appena più grande della prima, con quattro mura e una rete per soffitto? Qui di Alfredo Cospito non si condivide alcuna idea, tanto meno quelle violente. Tranne una: il 41 bis, così come è oggi applicato su oltre 700 persone in Italia, è semplicemente tortura.