Una manciata di giorni fa, il 28 gennaio, in redazione è arrivata una di quelle notizie che ti lasciano senza parole. Una di quelle che passi un po’ di secondi zitto, incredulo, e poi un po’ alla volta la inizi ad assimilare. È morto Ezio Degradi. Ezione, il Caposervezio come lo chiamavamo affettuosamente in redazione programmi. Una sorta di essere mitologico per metà Caposervizio e per metà Ezio.
Il mio primo incontro con lui è stato in via Stradella sul finire degli anni ‘90. Io giovane collaboratore, lui già navigato redattore. Avevo bisogno di alcuni dischi e lui era l’uomo che deteneva le chiavi del sacro armadio dei vinili. Il luogo più protetto della radio di cui era custode e amministratore. Il sacerdote del tempio della musica. Colui che teneva nota di ciò che entrava e di ciò che usciva. Mai sgarrare con Ezio, se prendevi un CD poi lo dovevi restituire per tempo. Finì bene il nostro primo incontro, me ne tornai a casa con i dischi che mi servivano nello zaino e il suo avvertimento che mi risuonava in testa: “Si chiamano Pietro”.
Il suo legame con la musica non si esauriva all’onda e al mitico armadio. Sapeva tutto di un certo tipo di musica e da giovane era stato anche cantante. Uno di quelli che negli anni ‘60 potevi sentire nei jukebox a bordo spiaggia o nei bar. Aveva fatto anche un pezzo in giapponese, ovviamente senza sapere una parola della lingua. Cose d’altri tempi.
Nel 2014 io e Jam abbiamo invitato Ezio in onda a Big Fish per farci raccontare quell’incredibile periodo. Ne è venuta fuori una bellissima chiacchierata che condividiamo con voi. Ciao Caposervezio.