Domenica 31 marzo, Ezio Bosso dirigerà la Stradivari Festival Chamber Orchestra in concerto alla Sala Verde del conservatorio di Milano. Lo abbiamo intervistato per Radio Popolare durante la trasmissione MiniSonica, ponendogli domande su quello che pensa della musica e quello che pensa dell’esistenza.
Ezio Bosso è direttore d’orchestra, compositore e pianista. Torinese di nascita adesso vive tra Londra e Bologna, e naturalmente gira il mondo per i suoi impegni con l’amore della sua vita che è la musica classica. L’anno scorso la Sony ha pubblicato due suoi album, il primo a giugno, proprio con l’orchestra che dirigerà domenica prossima, e il secondo a novembre dopo tre anni di preparazione chiamato The Roots (A tale sonata).
Nell’intervista ci porta con lui in un viaggio meraviglioso, il tutto dalla sua sedia a rotelle perché Ezio Bosso soffre di una sindrome neurodegenerativa ma come dice lui “I problemi sono occasioni”.
Ti ho sentito, prima di un concerto, dire alla tua orchestra “Have fun” in diverse lingue. Solo se ti diverti questa gioia arriverà a chi ti ascolta?
“Divertiamoci” è una frase che mi diceva Claudio Abbado e io dico sempre divertiamoci come i pazzi. È tutto. Se ti diverti, inteso in modo aristotelico, un divertimento più vicino alle vertigini che non all’ilarità. Divertirsi non vuol dire solo ridere, anche commuoversi davanti all’inaspettato. Se ci pensi, qualsiasi persona che senza forzature si stia divertendo facendo quello che fa ci trasmette una passione. Anche un cameriere. Quando vedi il cameriere che si diverte a fare il suo mestiere tu mangi meglio.
Maestro con la M minuscola, preferisci?
La ragione per cui non mi piace la parola maestro è che una delle parole più abusate. Poi perché ho avuto un maestro talmente cattivo da ragazzino che quando sentivo la parola maestro cominciavo a tremare, mi ha fatto venire una forma di idiosincrasia traumatica. E allora per un bel periodo quando sentivo me stesso chiamare maestro iniziavo a tremare. Quando incontrai Claudio, la prima cosa che mi disse è “Io sono Claudio” e da allora è rimasto “Io sono Ezio”. Poi sei maestro non solo quando hai le bacchette ma quando te lo meriti.
Capita che tu non ti senta meritevole?
Io non mi sento meritevole per intero. Mi sento sempre in debito e sento un senso di gratitudine. Mi imbarazzano i complimenti, rido con la mia orchestra perché dico “Guarda se sono ancora vivo è solo perché non mi basta mai”, devo ancora arrivare a quel punto che è la ragione per cui la musica non basta mai. Non ho finito di imparare, sono felice di allargare le mie conoscenze e di dire potevo fare meglio, però sempre dando tutto. Mettendo tutto il bagaglio che ho appreso, mettendolo dentro quello che faccio.
Dentro la musica fai tutto. Componi, suoni, dirigi e insegni.
Adesso sembra un’anomalia ma nella musica a cui appartengo è sempre stato così. Non puoi dirigere se non hai studiato composizione, se non hai suonato uno strumento in una orchestra, è la natura. Quando parliamo di Bach, di Beethoven, tutti loro scrivevano, cantavano, suonavano più di uno strumento e dirigevano. Come dire Miles Davis, era un trombettista o era un compositore? È la stessa cosa. Invece adesso tendiamo a voler specificare, definire le specializzazioni perché siamo in un mondo che tende a escludere tramite barriere. Non è niente di speciale svolgere più mansioni.
Qual è il tuo primo ricordo?
Un ricordo a cui sono molto legato è quello di un volto, di notte, rassicurante. Il secondo è un profumo. I ricordi sono sensazioni. Quello più definito è quello musicale.
Hai imparato a leggere la musica prima di imparare a leggere le parole. Questa radice, che tra l’altro è il titolo del disco che ci hai messo 3 anni a scrivere, che è uscito l’anno scorso. Che bambino eri?
Non parlavo molto, ho iniziato molto tardi. Ero molto solitario, non è che non mi piacessero gli altri però mi piacevano molto il silenzio e l’immaginazione. Sì mi piaceva ascoltare.
Tu dici che la musica classica è libera?
È libera nel senso che mette a nudo che, soprattutto per come la vivo, come la sogno, come la conosco, ti toglie da te stesso. È una musica che trasfigura, è una musica che trascende. E la trasfigurazione è una forma di libertà. La musica classica soprattutto sa toglierti dal tuo posto e farti stare al tuo posto contemporaneamente, ti fa bene, ti libera. Mi ha fatto ridere perché ho dovuto un po’ spiegarlo, perché questa storia della musica libera è stata subito in qualche modo strumentalizzata. Per me la musica è una forma di credo che deve fare alzare, per questo ti libera dai dolori e se ci pensi in genere è il fenomeno della musica in generale. Ma in modo particolare quella scrittura così precisa diventa aria, diventa vibrazione e ci fa suonare tutti insieme. Quindi ci fa perdere tutti gli aspetti peggiori e ogni forma di sentimento diventa positiva, la rabbia diventa energia positiva, la tristezza e il dolore diventano una forma consolatoria di cui abbiamo bisogno. Commuove. Questo è qello che mi piace di più. La parola commozione non è emozione, è un misto che include anche “insieme”. Tra di noi musicisti classici abbiamo un modo di dire: quando qualcuno è molto presente sia emotivamente che sentimentalmente nel modo di suonare, diciamo che lui è “un commosso”.
È un momento di brutte notizie eppure non c’è niente di più lontano dal sovranismo rispetto a te che parli dell’Europa al Parlamento Europeo.
La musica esiste anche per proteggere e non va mai strumentalizzata da un lato o dall’altro. Cercare le ragioni della musica come faccio io, come facciamo noi, equivale anche a cercare ragioni di chi non la pensa come te e di chi magari lo esprime in maniera diversa. È difficile non c’è un equilibrio. Quando io ho parlato al Parlamento, ho parlato di Beethoven che era un pan-europeista, amore paneuropeo vuol dire al di là dell’Europa, non puoi non esserlo, ci cresci! Esiste una parte di sovranità però deve essere nobile: difendere la propria bellezza, quell’identità che crea la multi-identità. È importante il rispetto dei territori, che sono vasti, sono tanti. Parliamo pure di Patria, ma Patria è l’eredità che abbiamo. L’eredità che abbiamo non si difende chiudendola, si difende condividendola: è multiculturale è polifonica e polilinguistica.
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