Nell’immaginario collettivo i disastri africani rimasti nella memoria sono la guerra civile per il Biafra, negli anni sessanta; la Grande Fame in Somalia, all’inizio degli anni Novanta; il genocidio in Ruanda del 1994, e ancora la carestia in Etiopia “celebrata” con i concerti contro la fame da parte di alcune star internazionali della musica.
La carestia in Etiopia e nel Corno d’Africa è un fenomeno periodico, che ogni anno fa scattare l’allarme umanitario. Anche quest’anno si parla di una nuova carestia, resa ancora più drammatica dalle condizioni metereologiche prodotte da El Niño e capace di moltiplicare le masse di profughi in fuga verso l’Europa e di diseredati sensibili al richiamo del terrorismo, in crescita in Africa. Più dell’80 per cento degli etiopi vive grazie all’agricoltura, ma quest’anno i raccolti sono scarsi. Il governo dice che 8,2 milioni di persone hanno bisogno di assistenza alimentare immediata e che, entro il prossimo anno, in 15 milioni sono a rischio.
L’ultima di queste carestie è avvenuta in Somalia tra il 2010 e il 2012 ed è passata nel silenzio dell’opinione pubblica e dei media internazionali. In quell’arco di tempo ha ucciso 260 mila persone; una cifra spaventosa, addirittura superiore a quella ufficiale – 220 mila morti – della Grande Fame dei primi anni Novanta.
La causa, sempre ufficialmente, è appunto la carestia, la penuria di generi alimentari di prima necessità. In realtà le popolazioni del Corno d’Africa sono abituate a convivere con carestia e siccità, che in queste regioni sono periodiche. Sono nemici conosciuti e affrontabili. Perché questi fenomeni diventino mortali, perché facciano stragi di centinaia di migliaia di persone, hanno bisogno di una variabile umana.
La più frequente è la guerra, o un conflitto di bassa intensità che impedisce i movimenti, oppure un confine che si surriscalda. E’ quello che avvenne nel 1992, ed è anche quello che è avvenuto tra il 2010 e il 2012 con il conflitto in Somalia e la nascita dei miliziani di Al Shabaab affiliati ad Al Qaeda.
Dei 260 mila morti tra il 2010 e il 2012, metà sono bambini sotto i cinque anni. La Grande Fame di quest’inizio di terzo millennio ha ucciso il 4,6 per cento del totale della popolazione somala e il 10 per cento totale dei bambini, mietendo vittime soprattutto nel Centro e nel Sud, cioè proprio nelle regioni dove più si è combattuto. Una sorta di conferma che è la variabile umana a rendere la carestia un killer inesorabile.
La guerra nel Centro e nel Sud della Somalia, tra l’altro, non aveva nulla da invidiare a quella che nacque dal fallimento della missione internazionale dell’Onu Restore Hope a metà degli anni Novanta. A quei tempi c’era un contingente di caschi blu di circa 20 mila soldati appartenenti a diverse nazioni. Dal 2010 nel Centro e nel Sud della Somalia ha operato una missione di caschi blu africani di circa 17 mila soldati e le truppe di tre paesi, quelle del Kenya, dell’Etiopia, e del governo di transizione somalo. Un ulteriore conferma che è la guerra la variabile assassina.
Se la carestia che colpisce in questi giorni il Corno d’Africa diventerà disastrosa sarà, evidentemente, il frutto di una complicità con le guerre – numerose e silenti – che attraversano questa regione.