Domani in Turchia ci sarà l’attesissimo referendum costituzionale. Si vota sulla riforma in senso presidenziale, fortemente voluta da Erdogan e dal suo partito l’AKP. L’opposizione sostiene che una vittoria del sì trasformerebbe definitivamente il paese in una dittatura. Il presidente risponde che la Turchia ha bisogno di più stabilità.
Il referendum di domenica è probabilmente il passaggio politico più importante nella storia della Repubblica Turca, nata nel 1923 con Kemal Ataturk, dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano alla fine della Prima Guerra Mondiale. Visti i legami della Turchia con l’Europa e il Medio Oriente il voto di domenica avrà ripercussioni anche sul piano internazionale.
Ne abbiamo parlato con Berk Esen, politologo all’Università Bilkent di Ankara.
I media internazionali seguono la linea dell’opposizione e dicono che la Turchia sta scivolando verso la dittatura. È vero?
Non direi che la Turchia stia diventando in tutto e per tutto una dittatura, anche se nell’ultimo periodo lo stato ha fatto uso di pratiche autoritarie. Il principale partito del paese, l’AKP di Erdogan, ha accentrato sempre più potere, diminuendo e a volte distruggendo i meccanismi istituzionali che garantivano un certo equilibrio tra i diversi poteri dello stato. Il partito di governo sta quindi usando la struttura statale per i suoi interessi di partito. In Turchia sulla carta ci sono ancora elezioni libere, ma in realtà non si tratta più di elezioni libere. Per l’opposizione è sempre più difficile sfidare il partito di governo. Insomma, come dicevo, non siamo in una dittatura. Ci sono elezioni, domenica c’è un referendum, la gente vota, l’opposizione ha fatto la sua campagna, ma non è certo stata una campagna libera ed equilibrata.
Quindi come possiamo definire l’attuale sistema politico?
Se domenica vince il sì avremo un sistema presidenziale, ma un sistema presidenziale con delle caratteristiche peculiari e uniche. Innanzitutto non ci sarebbe più la posizione di primo ministro, mentre la figura del presidente verrebbe ulteriormente rafforzata. La riforma prevede per esempio che il presidente, oggi per costituzione un ruolo bipartisan, possa essere il leader di un partito politico, possa nominare un numero indefinito di vice-presidenti e anche di ministri. Quindi un sistema presidenziale molto marcato, molto forte, senza checks and balances. Un presidente decisamente più forte del presidente americano o del presidente francese.
Erdogan ha detto che il paese ha bisogno di questo nuovo sistema per garantire la sua stabilità. La Turchia ha molti problemi, interni ed esteri. Questo sistema potrebbe sul serio stabilizzare il paese?
Questo è quello che sostiene l’AKP, il partito di governo. Però bisognerebbe chiedergli quali siano le misure contro il terrorismo o contro i tanti altri problemi della Turchia di oggi che l’AKP non ha potuto adottare a causa dell’attuale sistema parlamentare. L’AKP è al potere dal 2002. In questi anni ha adottato diverse politiche proprio con l’obiettivo di risolvere diversi problemi gravi, come il terrorismo. Ma alla fine non li ha mai risolti. Il governo ha usato questo argomento in campagna elettorale ma non ha specificato cosa vorrebbe fare sul serio. Non vedo cosa possa cambiare con un diverso sistema istituzionale, una diversa forma di governo.
Quanto e’ cambiata la Turchia dopo il colpo di stato dello scorso luglio?
Per fortuna il colpo di stato non ha avuto successo e l’esercito ha dovuto fare un passo indietro. Le forze armate sono state indebolite, non hanno quasi più un ruolo politico. E questa, ripeto, è una cosa buona. La pagina dei colpi di stato militari dovrebbe essere finita. Il problema è che a causa del golpe il governo ha adottato una stretta non solo contro i presunti protagonisti del colpo di stato, ma contro quasi tutti i suoi oppositori. E molti temono che la situazione possa solo peggiorare, andando a colpire anche chi per tutta la vita si è sempre opposto ai colpi di stato militari. Sono andati in prigione o sono stati messi a processo politici, giornalisti, docenti universitari. Uno sviluppo preoccupante che magari, speriamo, il risultato del referendum di domenica potrebbe fermare.