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Emergenze e democrazia. Cosa mette alla prova l’emergenza COVID-19?

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Emergenze e democrazia. Rischi autoritari e responsabilità civili. Cosa mette alla prova l’emergenza COVID-19? A Memos Raffaele Liguori ne ha parlato con la politologa Nadia Urbinati e lo storico Giovanni De Luna. L’intervista inizia con alcune considerazioni sollecitate dalla notizia di ieri del colpo di spugna in Russia con il quale si è allungata la carriera politica di Vladimir Putin, trasformato in una sorta di zar a vita.

È solo un caso la coesistenza nel mondo di leader con profili autoritari (da Xi a Modi, da Bolsonaro a Trump, da Putin a Orban) oppure sono l’espressione di una malattia del potere, delle democrazie, di questi tempi?

Nadia Urbinati. È un processo che va avanti da un po’ di anni e che adesso sta diventando macroscopico. È legato ad alcune disfunzioni economiche, soprattutto nei paesi occidentali dopo la crisi del 2008. Questi regimi, cosiddetti autoritari, sarebbe meglio chiamarli dispotici. Proprio in questi giorni è uscito un libro veramente interessante del politologo australiano John Keane (“The New Despotism”, Harvard University Press). Il nuovo dispotismo è basato su un’idea che si accorda molto bene con il sistema di globalizzazione economica e dei mercati. Un sistema fondato sulla soddisfazione dei bisogni, di una vita fatta di materialità. Cosa che può essere benissimo fatta anche da un sistema dispotico, come dimostra anche il governo delle corporations. C’è un legame tra la trasformazione delle nostre economie (da industriali a consumistiche, a finanziarie) e la centralità che hanno le corporations all’interno dello sviluppo economico. Ad esempio: oggi il tema della concorrenza, dell’antitrust, è meno forte che in passato. E ciò porta ad una esaltazione di questi dirigismi funzionalistici. C’è un elemento di funzionalità: siccome lo scopo è acquistare merce, avere un buon rendimento di vita, chi riesce a proporlo e a soddisfarlo vince.
Questo è il tema di cui si parla oggi, rispetto al quale questi governi dispotici dimostrano – soprattutto quello cinese e quelli asiatici – di avere una funzionalità suprema. Cosa hanno fatto? Hanno semplificato il processo decisionale: hanno tolto quegli orpelli cacofonici, conflittuali, che appartengono alle democrazie. La democrazia quando si trovano di fronte ad emergenze hanno oggettivamente il fiato più corto. Ma ciò fa parte dei rischi che la democrazia ha sempre corso da quando è ritornata al mondo nel XVIII secolo.

Professor De Luna, allora questa coincidenza temporale tra leadership con profili autoritari (o dispotici come diceva Nadia Urbinati) è un caso oppure è l’espressione di una malattia del potere?

Giovanni De Luna. Più che una malattia del potere è una malattia della democrazia. La democrazia fan fatica a governare le emergenze, le complessità. A me viene in mente il complessivo arretramento delle democrazie in Europa tra le due guerre mondiali. Alla vigilia della seconda guerra mondiale soltanto Gran Bretagna e Francia, tra le grandi potenze europee, potevano ancora definirsi regimi democratici. Questo è il sintomo della malattia, della crisi. Tra le due guerre mondiali, dopo la crisi del ’29, la democrazia fece fatica a confrontarsi con la complessità di quel mondo. Mentre invece il regime autoritario (o dispotico) hanno una loro ricetta molto più semplice da proporre. Ci sono tre elementi che giustificano questo dilagare dei regimi autoritari.

– Uno è quello economico, che Urbinati ha sottolineato con grande efficacia.

– L’altro è legato alla capacità dei regimi autoritari di spostare l’accento dai valori agli interessi. Sono gli interessi che vengono posti in primo piano, interessi da difendere in maniera aggressiva contro il nemico, contro l’esterno, quindi è una cosa molto aggressiva dal punto di vista della politica.

– Il terzo elemento è quello di ridurre la complessità, di proporre una semplificazione estrema di tutti i problemi dimenticando che la politica è argomentazione, complessità. Questa ricetta, fatta di valori al posto degli interessi, di riduzione della complessità, è una ricetta che funziona. E in questo momento la democrazia è in affanno.

Quando pensiamo all’affanno della democrazia oggi, io non penserei alla Cina, professor De Luna. Certo è che oggi la Cina  viene evocata quasi come un esempio, a proposito della radicalità delle misure prese in quel paese per combattere il coronavirus. Secondo lei, professor De Luna, siamo in presenza di stravaganze, di cose dette un po’ a caso oppure – secondo lei – c’è anche da noi in Italia una voglia di semplificazione, di riduzione della complessità, anche in modi un po’ spicci?

Giovanni De Luna. Il nocciolo della questione è che la crisi del coronavirus ha scaraventato la nostra vita privata, le nostre scelte private nello spazio pubblico. La stretta di mano, ciò che mangiamo, chi frequentiamo, le nostre azioni affettive. Tutta la sfera della nostra domesticità, della nostra dimensione privata, è stata scaraventata nello spazio pubblico ed è diventato oggetto di statuizioni legislative, di interventi governativi. In questa dimensione è chiaro che un regime autoritario come la Cina ha delle chances che la democrazia non propone. La democrazia non è abituata a confrontarsi con il biologico. La democrazia guarda i suoi cittadini nella loro dimensione politica, il patto di cittadinanza che lega i cittadini allo stato si fonda sulla politica, non sulla biologia.
La  dimensione biopolitica – che l’intervento dello stato ha assunto in questa congiuntura – favorisce oggettivamente i regimi autoritari. Questi ultimi hanno avuto con la biopolitica delle frequentazioni assidue e consolidate. Da questo punto di vista credo che oggettivamente le misure prese in Cina abbiano avuto un terreno fertile su cui attecchire, proprio perchè c’erano dei precedenti culturali e politici che spingevano in quella direzione. Da noi è tutto molto più complicato. La democrazia o è inclusiva o non lo è. Pensi che in questo momento le misure che bisogna prendere sono misure di muri, di barriere, di chiusure, che sono una dimensione contraddittoria intrinseca nei confronti della democrazia. La Cina non ha avuto questo problema.

Professoressa Urbinati, si può combattere il coronavirus in modo democratico oppure combattere questo tipo di emergenze va sempre a scontrarsi contro la democrazia e i suoi principi?

Nadia Urbinati. Mi faccia spezzare una lancia a favore della democrazia. Il virus è scoppiato probabilmente in ottobre/novembre scorsi in Cina e nessuno al mondo lo sapeva. All’interno della stessa Cina, i dirigenti politici di Pechino sono stati riluttanti a lasciare trasparire questo problema. La Cina è un colosso economico mondiale, non può esporre i suoi mercati finanziari a questi rischi di pandemie. La notizia venne celata. Oggi vediamo, invece, che tutti i governi a livello internazionale riconoscono all’Italia un fatto importante, come scrive la stampa americana e inglese: e cioè aver fatto circolare tutte le informazioni in tempo reale. Tutto si sa del nostro paese. Non c’è stato nulla di celato. È una ricchezza importantissima di conoscenza per gli interventi presenti e futuri in altri continenti. Noi non consideriamo quanto sia importante – nei casi emergenziali – sia l’informazione che la libertà di controllo del potere.

Quasi tutti i paesi al mondo sono costretti ad affrontare le conseguenze del coronavirus. Professoressa Urbinati, lei non crede che la gestione di questa emergenza possa essere anche una prova generale – non necessariamente decisa a tavolino – per emergenze prossime venture. Ricordiamoci che abbiamo un’emergenza climatica che aspetta decisioni urgenti. Quello di un oggi è un test per il futuro?

Nadia Urbinati. L’Italia ha una costituzione che consente al governo di poter prendere misure efficaci e necessarie in casi di emergenza. Nei sistemi autoritari come la Cina c’è una repressione diretta come la chiusura in carcere di interi quartieri. Da noi non è possibile. Il nostro è un sistema che riposa molto sulla privata responsabilità di noi cittadini. Quindi dipende molto dalla dimensione del discorso individuale. Allora, io ritengo che non sia proprio così tutto negativo come si vuol mostrare. Non è negativo il fatto che una democrazia debba fondarsi sulla responsabilità dei suoi cittadini che sono i veri sovrani, i veri commissari della loro salute e della loro libertà. Diversamente, noi non ne usciremo. Contrariamente alla regione cinese, l’Italia non è così facile da mettere in galera e da chiudere dietro un filo spinato.

Professor De Luna, ciò che sta accadendo in Italia può rappresentare un esperimento a fronte di emergenze future? Può essere un test per una gestione centralizzata, dirigistica e anche autoritaria?

Giovanni De Luna. Può essere un occasione di rilancio della democrazia non come forma di governo, ma come anche una passione civile. Prima facevo l’esempio delle vicende tra le due guerre mondiali. La democrazia che fu riscoperta dopo il 1945 fu carica di passioni, di mobilitazione civile, carica di impegno. La democrazia fu allora qualcosa per la quale anche morire e combattere. Quella democrazia può ritornare. L’accoppiata trasparenza-responsabilità può essere una chance per una democrazia non più estenuata, schiacciata dalla tecnocrazia, dal pragmatismo, ma capace di riproporre degli ideali.

Professor De Luna, ciò che ha appena descritto mi sembra l’esito positivo che può avere la gestione emergenziale del coronavirus. Ma io le avevo chiesto se le misure decise oggi possono essere la prova di gestioni emergenziali future, anche autoritarie.

Giovanni De Luna. Può anche succedere questo, ma a salvarci dall’autoritarismo incombente è la responsabilità individuale, come diceva Urbinati. Qualsiasi provvedimento venga preso, anche quello più limitativo delle nostre libertà individuali, deve fondarsi sulla fiducia dei cittadini. I cittadini devono partecipare ai processi decisionali che li riguardano in prima persona. Credo che gli appelli alla responsabilità individuale, che sembrano quasi sminuire il peso della politica (lavarsi la mano, non stringere la mano), diventino invece delle testimonianze di consapevolezza. Ciò che vorrei che si recuperasse dal basso è la consapevolezza. Mentre dall’alto vorrei che si recuperasse la legittimazione dei propri interventi, anche quelli più autoritari.

Foto | Cremlino

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