A volte viene da chiedersi se in questi giorni i protagonisti della crisi politica abbiano avuto il tempo di incrociare non dico una coda davanti alla mensa dei poveri, ma almeno un autobus – di quelli pieni di persone schiacciate tra loro – altro che distanza di sicurezza.
Oppure se si siano avvicinati a un bar, di quelli in cui non si può consumare dentro ma fuori si beve il caffè al freddo insieme.
O se, sempre in questi giorni, siano entrati non dico in una fabbrica, ma almeno in un negozio di quartiere, e abbiano scambiato due chiacchiere con i proprietari.
O ancora se si siano fermati un attimo davanti a una scuola elementare, in uno di quei capannelli delle mamme e dei papà che si formano dopo aver lasciato i bambini in classe
Certo, “populismo”, potrebbe obiettare qualcuno. Può sembrare “facile populismo”, contrapporre il famoso paese reale alla politica, alle sue necessità, ai giusti rituali della democrazia e dei partiti.
Ma di fronte a questo spettacolo – una politica tutta autocentrata, ombelicale, che guarda solo se stessa, mentre il Paese è allo stremo non solo sociale ma anche psicologico – viene da chiedersi anche se il cosiddetto populismo non sia proprio l’effetto di chi questo distacco tra vita quotidiana e palazzo non lo percepisce, non lo capisce, o almeno non lo valuta nella sua drammaticità
Sì, perché è proprio così che tra i cittadini si crea la sfiducia nelle istituzioni democratiche: con il distacco tra elettori e rappresentanza, e quindi con il conseguente desiderio diffuso di un leader muscolare e autocratico.
Da una parte ci sono capi e i sottocapi dei partiti belli incravattati che nel solito mezzo ettaro di palazzi romani rilasciano dichiarazioni incomprensibili ai più, dall’altra parte c’è la paura del virus, della povertà, del futuro.
È così che si fa viaggiare il paese verso le soluzioni peggiori: altro che rimpasto, Conte ter, “sfiducia costruttiva” e gioco dei cerini tra gli arazzi delle camere.