Il primo giugno a El Salvador si compiono due anni esatti dall’insediamento alla presidenza della repubblica di Salvador Sanchez Ceren, ex comandante della guerrigliero durante il sanguinoso conflitto armato degli anni ’80, cui posero fine gli accordi di pace del 1992.
Ceren aveva prevalso al ballottaggio sulla destra di Arena (Alleanza Repubblicana Nazionalista) con uno scarto solamente dello 0,1 per cento dei voti, dimostrando comunque che in un contesto decentemente democratico di elezioni libere, la sinistra potevaraggiungere il governo attraverso le urne. Cosa che le era stata impedita nel passato con brogli elettorali e una repressione sanguinaria, che la costrinsero ad imbracciare le armi.
Tuttavia governare non si sta rivelando per niente una passeggiata per l’oggi partito Fronte Farabundo Martì (FMLN), a partire dal non avere la maggioranza assoluta in parlamento, che costringe il governo a negoziare al ribasso ogni provvedimento con la destra di Arena. Il Fronte è così impossibilitato a far passare quella riforma fiscale indispensabile per avviare una redistribuzione effettiva della ricchezza concentrata da sempre nelle mani dell’oligarchia. Oligarchia che perpetua lo schema coloniale che si prolunga da cinque secoli e che riduce la stragrande maggioranza del paese a peones, condannati alla perenne povertà. Infatti a El Salvador, così come nel resto dei Paesi centroamericani confinanti, i ricchi e le loro imprese scandalosamente non pagano quasi imposte dirette sui loro redditi e patrimoni.
Se a questo si aggiunge che la moneta nazionale circolante è il dollaro statunitense coniato a Washington, ci si può immaginare quanto scarsi siano i margini di manovra economica e finanziaria per il governo del FMLN (oltre che dover gestire un paese con il più alto costo della vita nella regione).
Da ultimo il gravissimo problema della violenza delle bande giovanili, manovrate dal narcotraffico e dalla criminalità organizzata e che tanto comodo fanno alla destra politica che da un lato chiede “mano dura” per reprimerle e dall’altro le manipola, se non le controlla direttamente.
Ogni mese si registrano in El Salvador una media di 500 morti ammazzati su una popolazione di 5 milioni di abitanti, quasi tutti sotto i trent’anni. Facendo le debite proporzioni è come se Italia si contassero 6mila assassinii al mese. Analoga tragedia nei vicini Guatemala e Honduras, che fanno di questi paesi le nazioni più violente al mondo senza che sia in corso alcuna guerra.
Nelle ultime settimane pare che il governo sia riuscito a contenere in parte questo fenomeno che si concentra in giovani senza lavoro, disperati, che si organizzano per controllare interi quartieri popolari, finanziandosi con le estorsioni.
Il presente e il futuro di questo Paese non è dunque per niente roseo. Fino a che i suoi politici, tutti, non si ispireranno e non si approprieranno dell’eredità e degli ideali di pace e giustizia sociale per i quali si era battuto l’arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero, assassinato dagli squadroni della morte mentre celebrava messa il 24 marzo 1980 (e da poco beatificato da papa Francesco) difficilmente El Salvador potrà uscire da questa spirale di violenza e povertà.