Talaat Shabeeb aveva 45 anni, martedì scorso è stato arrestato dalla polizia egiziana a Luxor per possesso di stupefacenti. Shabeeb è morto in cella, la motivazione data dalle autorità parla di “un peggioramento improvviso delle sue condizioni di salute”. Una versione che non convince i suoi familiari.
Hassan Said, cugino di Shabeeb, dice di aver visto dei lividi sul cadavere dell’uomo e sostiene che sia stato picchiato a morte dagli agenti di polizia. Niente di nuovo in Egitto, centinaia di manifestanti nei giorni seguenti alla morte di Shabeeb sono scesi in piazza a Luxor. “Al dakhlya baltagheya“, (ossia “il Ministero degli Interni – e la polizia – sono dei teppisti”), questo lo slogan urlato da poche centinaia persone che sono state disperse dalla polizia in nome della legge anti proteste dell’autoritario regime di Abdel Fattah El Sisi. Anche qui niente di nuovo.
Quelle parole erano tra le più usate nelle rivolte di piazza contro la polizia. Sembra non esserci nessuna novità, dunque, nell’Egitto di Sisi che perpetua le peggiori abitudini e i peggiori crimini delle dittature precedenti. Le torture nelle carceri e nelle stazioni di polizia, come già ampiamente denunciato da diverse organizzazioni per i diritti umani , sono da sempre una prassi in Egitto. Human Rights Watch, in un report pubblicato nel 2011, le definiva “endemica agli apparati di sicurezza”. La difficoltà nel dare dei numeri precisi delle persone morte in carcere arriva anche dal divieto di accesso che le autorità egiziane impongono alle organizzazioni per i diritti umani.
Le testimonianze, arrivano, infatti dai parenti delle vittime o dai detenuti stessi dopo il loro rilascio. “Il sistema di polizia ha bisogno di una profonda riforma, la tortura è una pratica ben conosciuta che non si è fermata nemmeno durante la rivoluzione”, afferma un esponente di Human Rights Watch che per ragioni di sicurezza preferisce restare anonimo. Nel giugno del 2014 un’inchiesta del The Guardian denunciò la detenzione e la tortura di centinaia di persone nel carcere militare di Azouli nella cittadina di Ismailia. Diversi di loro sono stati incarcerati senza avere la possibilità di avvisare le famiglie o un loro legale e, secondo quanto riportato dal giornale britannico, hanno subito torture su base giornaliera.
Proprio da un abuso da parte delle forze di sicurezza scattò la scintilla della rivoluzione di piazza Tahrir, ormai quasi 5 anni fa. Khaled Said, un giovane di Alessandria, venne ucciso nel dicembre del 2010 in un internet café, picchiato a morte da alcuni agenti di polizia. La pagina Facebook Kullina Khaled Said (“siamo tutti Khaled Said”) raggiunse i 4 milioni di like e fu uno dei mezzi per organizzare le rivolte che deposero Hosni Mubarak. Intanto, il ministero degli Interni ha dichiarato ai media egiziani dai aver aperto un’inchiesta sulla morte di Shabeeb.
Abu Bakr Abdel Karim, vice ministro per le pubbliche relazioni e i media ha detto che il caso è stato portato davanti a un tribunale di competenza. “Il Ministero non può lasciare che la sua immagine venga offuscata da delle azioni individuali” ha affermato Abdel-Kerim al canale egiziano On Tv. La maggior parte degli agenti delle forze di sicurezza resta però impunita. Ancora di più oggi perché la propaganda di governo, portata avanti nel nome della lotta contro il terrorismo, continua a giustificare una delle repressioni contro i diritti umani più pesanti della storia egiziana.