Abbas Attar, fotografo iraniano nato nel 1944 ha vissuto gran parte della sua vita a Parigi e in giro per il mondo. Grande fotoreporter si è occupato di conflitti e rivoluzioni in Africa, in Medio Oriente, in Cile, a Cuba, in Vietnam, in Messico e ha documentato la tragedia dell’apartheid in Sudafrica.
Tra i suoi lavori più apprezzati: “Iran Diary 1971-2002“, tra il ’78 e l’80 aveva fotografato la rivoluzione in Iran, dove era poi tornato nel 1997 dopo 17 anni di esilio volontario. L’altro suo lavoro più noto: “Allah O Akbar“, un viaggio attraverso i militanti islamici del 1994, indaga le tensioni nelle società del mondo musulmano tra la ricchezza della storia e della tradizione e il desiderio di modernità. Il libro è stato particolarmente apprezzato per conoscere questo aspetto dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.
Il rapporto tra religione e società ha sempre improntato il suo lavoro: le sue immagini hanno fatto conoscere riti ancestrali e culti antichissimi dell’induismo, dell’animismo e del buddismo sia nelle città che nelle regioni più remote. In un’intervista spiegava:
Quello che m’interessa non è tanto la convinzione personale, ma ciò che le persone sono in grado di fare per amore di Dio.
Era entrato a far parte dell’agenzia Magnum a Parigi nel 1981 dopo aver lavorato per altre agenzie, e della Magnum divenne uno dei pilastri. Un altro grande fotografo e membro della storica agenzia, Ferdinando Scianna, lo conosceva bene e ne ammirava il lavoro. Ecco il suo ricordo:
Credo di averlo conosciuto nel centro Africa, perchè eravamo insieme, credo perchè anche lui fosse ancora a Magnum. Ieri lì per fare l’incoronazione di Bokassa, così ci siamo conosciuti. Poi ci siamo conosciuti a Magnum, lui è entrato nel 1981, un anno prima di me. Poi naturalmente ci siamo conosciuti e frequentati anche se poi, in definitiva, io nel 1983 sono tornato a Milano e lui viveva a Parigi, quindi ci siamo incontrati non come due che vivevano nella stessa città e negli stessi uffici, ma come due che avevano rapporti con la stessa agenzia. Lui era effettivamente uno di quelli che meglio ha capito a cosa potesse servire Magnum e che se ne è servito meglio, e lo dico con ammirazione. Si è molto identificato con Magnum. È stato soprattutto un grande reporter, era veramente appassionato di quello che succedeva nel Mondo, era sempre in giro, era sempre a fotografare, era sempre sull’attualità, un vero fotografico raccontatore e giornalista del nostro tempo.
Naturalmente è andato al di là quando c’è stata la rivoluzione iraniana, è andato a raccontare come nessun altro poteva fare, perchè era iraniano e quindi in un certo senso l’ha raccontata dall’interno, parlava a fondo la lingua, vi si è anche in un certo senso, culturalmente e ideologicamente, identificato. Aveva una posizione politica contraria allo scià eccetera, fino alle grandi disillusioni successive. Si rese conto di molte cose accompagnando quel grossissimo fatto di carattere storico, si rese conto anche della potenza creatrice che poteva avere l’Islam e da lì nacque questo suo progetto, che probabilmente è la cosa più grande che ha fatto.
Il libro sull’Islam
Sì, “Allah O Akbar”. Quello che è veramente fondamentale, perchè è avvenuto prima di tutto insomma, prima delle Torri Gemelle e prima del problema dei rapporti con l’Islam. E lui l’ha fatto veramente dall’interno. Un grandissimo libro, un grandissimo progetto fatto a grandi livelli fotografici.
Quindi si è sempre interessato anche di questo rapporto tra religione e società
Sì, si è sempre interessato anche di questo rapporto tra religione e società perchè era connaturato al rapporto col proprio Paese, lui aveva sofferto, era andato via un po’ anche per quelle ragioni. Quando poi il fatto religioso diventò anche il motore di una rivoluzione, la raccontò e la sposò. Dopo di che questa commistione un po’ inquietante tra il fatto religioso e il fatto politico senza distinzione in cui la rivoluzione ha prodotto una specie di stato teologico lo inquietò moltissimo però gli permise di raccontare la faccenda dall’interno come poche altre persone potevano fare.
Con un grande coinvolgimento insomma
Con grande coinvolgimento insomma e con grande passione.
Lei ne ha un ricordo particolare? Si ricorda un episodio particolare?
Ogni tanto lo chiamavano così scherzosamente l’Ayatollah, perchè lui aveva una visione di Magnum come fosse una tribù islamica anche quella, però per identificazione e per amore era sempre in Magnum, credeva in Magnum, suo figlio lavora a Magnum. Era anche lì un fatto di grande identificazione personale.
Non è esagerato dire che ne era una colonna
No, assolutamente no. Era sicuramente una personalità di riferimento.