Cristina Cattaneo, professoressa di medicina legale all’università di Milano e direttrice del LABANOF, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense della stessa università di Milano, è anche la coordinatrice di un lavoro per ricostruire l’identità dei migranti morti in alcuni naufragi nel Mediterraneo, in particolare quello di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e quello del 18 aprile 2015.
Dal suo lavoro è nato un libro “Naufraghi senza volto – Dare un nome alle vittime del Mediterraneo“, pubblicato da Raffaello Cortina Editore. Oggi l’abbiamo intervistata e ci siamo fatti raccontare come si svolge il suo lavoro e quali sono le difficoltà che deve affrontare ogni giorno.
Il grande coordinatore di questo lavoro è un ufficio di governo, l’Ufficio del Commissario Straordinario per le persone scomparse, nato nel 2007. Noi come università abbiamo sempre combattuto per il diritto di chi ha perso qualcuno a ritrovare il suo morto e quindi a dare nome e cognome al morto. Abbiamo sempre collaborato con questo ufficio, ma ad un certo punto, per una serie di cose, ci siamo resi conto che c’erano delle enormi ingiustizie rispetto alle vittime dei grandi disastri degli ultimi 15 anni. Stiamo parlando di decine di migliaia di persone di cui la metà non ha un nome.
Spesso, nel mio mestiere, appena c’è un disastro aereo si corre per identificare le vittime. Abbiamo visto, però, che per queste vittime qui – e stiamo parlando del disastro più grosso del dopoguerra – nulla veniva fatto per identificarle. Questa sembra una grossa ingiustizia, perché diamo per scontato che i morti vengono identificati e che l’identità sia qualcosa in più che si fa per la dignità dei morti, ma noi stessi che gestiamo morti tutti i giorni abbiamo scoperto che anche i cari di queste vittime hanno bisogno di sapere per la loro salute mentale che il figlio è andare così avanti con la loro vita. Ma questo vale anche per motivi amministrativi: abbiamo visto orfani lasciati nei Paesi d’origine con amici perché non c’erano abbastanza soldi per far viaggiare tutta la famiglia. E quindi era fondamentale riuscire a dare un certificato di morte di madre e padre affinché gli orfani potessero fare ricongiungimento con quei pochi parenti che magari erano già scappati dall’Eritrea o dal Sud in Europa.
Il lavoro dell’identificazione dei corpi fatto magari giorni dopo la morte in mare di una persona, quando il corpo viene recuperato, è un lavoro particolarmente difficile. Poi c’è anche il lavoro parallelo con i parenti per cercare di rintracciarli e di contattarli, perché dopo aver stabilito le caratteristiche di un corpo è necessario incrociarle con le caratteristiche di chi te le può raccontare o di chi è rimasto e conosceva il corpo e le fattezze.
Esatto. E questa è la grande sfida. Ammesso che si potrebbe riuscire comunque a fare tutte le autopsie allo stesso modo, raccogliere i dati in maniera uguale per tutti questi morti – cosa già abbastanza difficile – la vera sfida è quella di recuperare i parenti che ti portino il figlio per il DNA o la fotografia o la lastra del dentista e via dicendo. Questa è la sfida, perché questi parenti non soltanto si sono anche abituati all’idea che nessuno si darà da fare per identificare i loro morti, e quindi non se lo aspettano e non cercano, ma sono difficili da contattare. Alcuni sono nei Paesi di origine e in alcuni Paesi è anche pericoloso approcciare i parenti di chi è fuggito perché potrebbero subire delle ritorsioni. Invece alcuni sono in viaggio e anche qui è difficilissimo con la diaspora riuscire a beccarli. Questa era una facile soluzione per chi magari non vorrebbe impegnarsi a identificarli, ma questa difficoltà non esiste, perché in realtà basterebbe che ogni Paese creasse degli hotspot in cui i parenti sanno che dovrebbero andare in questo posto, in Francia o in Germania ad esempio, e dare i loro dati per identificare i loro morti. Nel 2018 è una questione molto semplice perché la comunicazione dovrebbe essere il nostro forte, ma estremamente difficile. È possibile, però, ed è stato dimostrato con il primo esperimento dei morti eritrei del 3 ottobre 2013 di Lampedusa: siamo riusciti a far muovere in quello che si chiamerebbe un “worst case scenario” i componenti delle famiglie delle 70 persone scomparse, li abbiamo fatti spostare in Italia dai punti più disparati d’Europa per venirci a dare le informazioni. E così abbiamo identificato più della metà delle persone che erano cercate. Il punto è stato fatto: questi si possono identificare, vanno identificati e qualcuno li sta cercando.
C’è un elemento umano nel lavoro che state facendo, c’è un elemento civile, ma in fondo c’è anche un elemento profondamente politico in questo progetto. L’impressione che mi sono fatto è che ci sia una convenienza di natura politica nel lasciare questi morti senza nome, perché i morti senza nome in fondo restano nella categoria dell’astrazione, non toccano la carne, il vissuto e la sensibilità dell’opinione pubblica che li guarda. Lei che pensiero si è fatta?
Io sono partita subito in quarta dicendo che questa era una discriminazione molto pesante di natura culturale. E in realtà ho un po’ questa conferma: è chiaro che ogni momento politico ha le sue convenienze e spinge verso determinate cose. È facile far scomparire decine di migliaia di morti se non hanno identità e se non si parla con i loro parenti. Mi sono un po’ ricreduta sulle motivazioni perché in realtà, mettendoci mano, è un’operazione molto difficile. Non è un’operazione costosissima, ma non è molto molto facile per quello che ho appena detto: ci vorrebbe la volontà di diversi Paesi soltanto nel diffondere le informazioni e nel collaborare tra governi. Stiamo vedendo che questo non è facile, non è impossibile, ma ci sono diversi scogli. È chiaro che se la cosa non la vuoi fare, al primo ostacolo ti fermi.
Lei racconta nel libro che una volta vi hanno chiamati e vi hanno dato un tempo molto limitato per fare tante autopsie. E lei scrive che avere tanti corpi in un hangar è una cosa che ci si vuole levare di torno rapidamente.
Sì, si stava parlando del primo tentativo del primo gruppo di autopsie dei 13 famosi del disastro del 18 aprile 2015. Diciamo che qui la causa prevalente era un pregiudizio tecnico: in generale nel mio mestiere le difficoltà che incontriamo è che tutti pensano che tutto si risolva col DNA. Siamo un po’ viziati da questo DNA, dalla traccia dell’omicida sulla vittima e l’identità. Certo, il DNA ha un potenziale enorme, ma non si identifica soltanto con il DNA. Qui l’idea era che con questo DNA bastava prendere un tampone di saliva dalla bocca del morto senza neanche quasi aprire il sacco. Non è così, soprattutto su queste vittime: per identificare col DNA o ho bisogno dello spazzolino da denti della vittima, cosa difficile da ritrovare in questi casi, oppure un parente stretto – i fratelli, i figli o i genitori. Tante volte, però, anche la scienza segue ciò che è più conveniente e fa quello che è più necessario in quel periodo storico. Qui non abbiamo i dati ancora per identificare con il DNA queste persone. O meglio non conosciamo così bene i caratteri genetici di queste popolazioni – non così bene come conosciamo quelli delle popolazioni europee – e quindi diventa un po’ difficile raggiungere livelli di certezza soltanto con il DNA. Oppure è difficile trovare i parenti giusti per identificare col DNA. Questi ragazzi – e questo è stato un dato molto toccante – hanno tutti un profilo Facebook. E lì su Facebook il fratello o l’amica che cercava il fidanzato o l’amico ci apriva questi questi profili: c’erano tantissime fotografie su cui, per i cadaveri meglio conservati, si poteva identificare tramite tatuaggi, nei o cicatrici o banalmente la forma del volto. Questo è proprio un pregiudizio tecnico su quello che è un aspetto del mio mestiere ed è un po’ difficile da sfatare.
Immagino che chi fa il suo mestiere debba necessariamente elaborare una certa distanza nella relazione con i corpi e le vite dei defunti con cui si ha a che fare. Invece in questo momento state facendo un lavoro per cui in qualche modo siete costretti a riconnettere le storie e i vissuti umani di quei corpi. Che effetto le fa?
Questo è l’effetto di un lavoro che faccio da 25 anni. Il distacco non c’è, ci sono la consapevolezza e il metabolizzare quello che ti porta a lavorare ogni giorno sui morti, sulla violenza e sulle vittime. Qui l’elemento in più è l’ingiustizia che subiscono queste vittime di cui nessuno si ricorda neanche di dare identità e che questo stride molto. E il lavoro è proprio quello: cercare di non far dimenticare, anche avvicinando e raccontando quello che ci avvicina a queste persone, cioè l’idea di trovare nelle tasche di questi ragazzi le stesse cose che abbiamo noi o che hanno i nostri ragazzi è proprio utile per avvicinare e mediare. Credo che se tutti potessero vedere o se tutti potessero condividere la sensazione che fa passare attraverso la stiva di quel barcone – perché quel barcone si è salvato e c’erano mille persone sopra – e vedere le fotografie che hanno dei loro amici e delle loro feste nelle loro tasche, vedere questi sacchetti di terra che si portano dal loro Paese per portare un pezzo di casa loro con sé. Credo che questo accorci molto. Non c’è mai un allontanamento, anzi il mestiere va proprio nel senso di avvicinare.
Le va di raccontarci una storia che l’ha particolarmente colpita?
Sono tante, è difficile scegliere quella che ti colpisce di più. Una che ci ha colpito particolarmente è stata quella di un ragazzo del Gambia. Una delle ultime autopsie che abbiamo fatto sulle vittime del barcone grosso, quelle del 18 aprile 2015. Dopo che tutti insistevano che nessuno avrebbe cercato quei morti e che sarebbe stato impossibile identificarli. L’ultima vittima era un ragazzo di circa 18 anni, aveva un portafogli in tasca pieno di tessere, tutte con lo stesso nome, stessa data di nascita e stesse faccia. C’era una tessera identificativa che doveva essere un qualche documento tipo carta d’identità e poi tra le altre c’erano una tessera della biblioteca del suo Paese e una tessera di donatore di sangue. E questo non ha bisogno di commenti.
Al di là degli aspetti tecnici, cioè di chi dava per scontato che prelevando un rapido campione di saliva si potesse sistemare tutto, siete stati anche ostacolati in qualche modo in questo vostro lavoro?
Non c’è stato mai alcun ostacolo attivo, ma diciamo che l’inerzia e l’apatia possono essere un ostacolo enorme. Sono quattro anni che stiamo cercando di fare questa cosa e l’Europa è abbastanza sorda. L’Italia si è trovata da sola a gestire queste missioni, da sola e senza l’aiuto di chi è anche proprietario di queste frontiere a sud dell’Europa. E siccome si tratta di un diritto fondamentale sono rimasta molto sorpresa da questa inerzia dell’Europa nei confronti di questa problematica. L’inerzia e l’apatia sono forse uno degli ostacoli più grandi.
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