Un’ora prima dell’inizio degli Academy Award del 1973, Marlon Brando e Sacheen Littlefeather si trovavano a casa dell’attore. Lui aveva interpretato in quell’anno don Vito Corleone ne “Il Padrino” ed era, per questo, il principale candidato alla vincita del premio Oscar. Lei aveva 26 anni, discendeva dal popolo degli Apache ed era un’attivista per i diritti dei popoli nativi americani. Quella sera Brando rimase a casa: vinse effettivamente l’Oscar, ma sul palco al suo posto, salì Littlefeather. Lei aveva un vestito tipico degli Apachi e i capelli lunghi e neri raccolti in due code.
Sacheen non poté leggere il discorso scritto da Marlon Brando: poco prima di prendere parola, venne minacciata. Se avesse parlato più di sessanta secondi, sarebbe stata portata di peso giù dal palco, e poi arrestata. Portava agli Oscar un discorso politico, per la prima volta in assoluto. E per la prima volta, a parlare era una donna indigena.
Soprattutto nei film Western, i nativi americani erano dipinti come nemici della civiltà, selvaggi, ignoranti, spesso usati per rappresentare il male. La femminilità nativa era sessualizzata. Lo stesso Marlon Brando spiegò pochi mesi dopo, in un’intervista, quale fosse stato il ruolo di Hollywood in una rappresentazione dei nativi americani che lui stesso definì criminale.
Sacheen Littlefeather nel suo discorso citò anche la cittadina di Wounded Knee, nella riserva indiana di Pine Ridge, che proprio in quel periodo era stata occupata da duecento nativi americani. L’occupazione fu simbolica da diversi punti di vista. I nativi chiedevano che venissero accordati trattati più favorevoli alla vita dei nativi americani, le cui terre erano continuamente invase e saccheggiate. Wounded Knee, d’altro canto, era anche un luogo simbolico: nel 1890 lì vennero massacrati dall’esercito americano almeno 150 nativi, tra cui molte donne e bambini. Nel 1973, durante l’occupazione, ci furono due vittime.
Le parole di Sacheen furono scomode, e lo testimoniarono sia i fischi che lei ricevette mentre era sul palco, sia alcune prese in giro da parte di altri attori che presero la parola dopo di lei. Lei stessa raccontò che provocarono tanto scalpore da portare John Wayne, i cui film rappresentavano tutti gli stereotipi sui nativi che Sasheen stava denunciando, a volerla attaccare fisicamente. Non lo fece perché sei guardie lo fermarono.
Quest’anno, dopo più di cinquant’anni da quell’evento, l’Academy ha chiesto ufficialmente scusa a Sacheen Littlefeather. Lei ha risposto con un’ironia che, dice lei stessa, è sempre servita ai nativi americani per sopravvivere.
La morte di Sacheen ha riportato all’attenzione pubblica le sue parole. Lei alle spalle aveva avuto una vita complicata. Due genitori instabili fisicamente e mentalmente, la vita di bambina con i nonni, la tubercolosi a soli tre anni. Il razzismo, le pressioni del sistema americano per fare azzerare le identità dei nativi, un tentativo di suicidio da adolescente. A 17 anni, la riscoperta delle sue origini e delle tradizioni native, e l’inizio della sua storia di attivista. Marlon Brando lo aveva contattato lei con una lettera, dopo alcune sue dichiarazioni a difesa dei popoli nativi. Per mesi non aveva ricevuto alcuna risposta, poi lui l’aveva richiamata. Dopo il discorso in quella sera del 1973, il nome di Sacheen Littlefeather venne scritto nella lista nera di Hollywood: lei recitò solo con qualche ruolo secondario, poi spese il resto della sua vita nell’attivismo.
Sacheen Littlefeather nel 1973 parlò per soli sessanta secondi, ma l’eco delle sue parole rimase nel tempo e segnò inevitabilmente la storia del più celebre premio cinematografico al mondo. Parlano ancora, anche oggi.
Chiara Vitali
foto: CNN