Quel richiamo all’unità, lanciato ai 700 delegati riuniti in un elegante hotel dei Parioli a Roma non è servito a evitare la scissione. Le parole di Veltroni all’Assemblea nazionale del Pd, che ha sancito l’ennesima spaccatura nel partito, sono state accolte nel silenzio dalla platea, una specie di Amarcord, un’attenzione mista al rimpianto per chi aveva assistito e creduto dieci anni prima alla nuova creatura del centrosinistra.
Ma il corso della storia di questi ultimi dieci non ha fatto retromarcia, la trasformazione del partito voluto da Prodi, e di cui Veltroni fu primo segretario, è ormai come un treno in corsa, veloce e proiettato verso ciò che Renzi definisce il “futuro”.
In mezzo ci sono state tante cose, scissioni e separazioni consensuali e sofferte, vittorie elettorali e sconfitte, rottamazioni e anche il tradimento dei 101, che ancora adesso Romano Prodi fa fatica a perdonare.
Renzi ha disertato la direzione che ha sancito la scissione, preferendo un viaggio in California, a Palo Alto per incontrare il progettista delle auto elettriche, tra la green economy e l’alta tecnologia: un viaggio studiato e voluto per registrare una distanza oceanica tra il futuro e i caminetti.
Eppure la scissione di oggi, consumata in tre giorni, dal Palco del Teatro Vittoria con le bandiere rosse e Speranza, Rossi ed Emiliano sul palco, alle interviste in Tv martedì sera di tutti i protagonisti, di chi abbandona e di chi resta, per spiegare ognuno le proprie ragioni, tutto questo lascia sul campo amarezze, dubbi, rabbia e disincanto. Soprattutto nelle città, nei piccoli centri, lontano dai palazzi della politica.
Dal Lingotto al Lingotto si potrebbe riassumere la storia del partito in questi dieci anni. Anche il viaggio in California rientrerà nella visione del futuro che Renzi lancerà con la sua mozione congressuale a metà marzo al Lingotto a Torino. Renzi è sicuro di potersi riprendere il partito, e dopo l’uscita dei bersaniani guidarlo verso nuove elezioni politiche, che siano quest’anno o alla scadenza nel prossimo febbraio. Emiliano ha spiegato di essere rimasto proprio perché Renzi avrebbe preferito vederlo fuori, può essere credibile, ma è anche vero che la sfida a due o a tre rivitalizzerà le primarie portando anche gli elettori di sinistra nuovamente ai gazebo del Pd.
Dieci anni fa con il discorso al Lingotto, Veltroni si candidava a guidare il Partito democratico, un soggetto nuovo, nato dalla storia dell’Ulivo di Prodi, e pronto a governare il paese, perché sorretto da una vocazione maggioritaria. Comincia tutto il 27 giugno 2007 con un discorso di 33 pagine che si concludeva con il sogno di un’Italia unita, moderna e giusta:
Veltroni coronava il suo progetto, vincendo le primarie pochi mesi dopo. A ottobre, il Pd riesce a portare oltre 3 milioni di elettori a scegliere il suo leader. Cinque candidati, tra cui Rosi Bindi ed Enrico Letta, e lunghe file ai gazebo, segno che il progetto di un partito che univa le storie diverse della Margherita e dei Ds, per darne una prospettiva unitaria, superando anche gli errori della coalizione dell’Ulivo e dell’Unione, aveva trovato consensi.
Nel 2008 la sconfitta di Soru in Sardegna provoca le dimissioni di Veltroni e alle primarie di quell’anno vince Pierluigi Bersani. E’ il nuovo segretario, che dopo nove anni, ieri, annuncia che non prenderà più la tessera del Pd.
Lascia il partito per costruire insieme a D’Alema, Speranza e Rossi, e altri fuoriusciti in questi ultimi tre anni, un nuovo gruppo, di cui la Velina rossa annuncia già il nome, “Movimento per una nuova Costituente della sinistra”.
Ma il progetto di tenere insieme due anime politiche così diverse subisce parecchi colpi, e scissioni negli anni. Il primo, dopo la vittoria di Bersani, fu l’uscita di Rutelli, è un pezzo di ala cattolica della Margherita che lascia, non regge ai colpi di un “Pd egemonizzato dalla cultura dei Ds”, nella fattispecie le questioni legate alla bioetica e il referendum sulla fecondazione assistita.
Nel 2010 a Firenze appare il giovane Renzi, che pochi anni prima dalla Margherita coordinava un “comitato per Prodi” e poi diventato sindaco del capoluogo toscano parla già di rottamazione e raduna alla Leopolda tantissimi giovani, che da allora si vedranno nei locali della stazione fiorentina ogni anno.
Sarà Bersani nel 2013 a candidarsi alle politiche, aveva sconfitto proprio Renzi alle primarie dell’anno prima. In quell’occasione Renzi aveva già fatto propria come parola d’ordine la rottamazione, l’avvio alla pensione di esponenti importanti come D’Alema, che infatti promise che se avesse vinto Renzi sarebbe stato scontro politico.
D’Alema rinuncia a candidarsi, l’idea di ringiovanire le liste, di rottamare con il passato si era già fatta strada. Bersani vince le primarie, ma a febbraio, alle elezioni politiche, clamorosamente perde. Inizia una fase complicata, di corto respiro, dove nessuno aveva compreso la forza del movimento 5 stelle, che irrompe in Parlamento.
Il Pd va al governo solo con le larghe intese di Enrico Letta. In mezzo c’è l’assemblea al Capranica dei 101 che voltano le spalle a Prodi e rendono necessaria la rielezione di Napolitano.
Bersani lascia la guida del partito e con le primarie poco dopo Renzi diventa per la prima volta segretario del Pd. E come leader dei democratici firma con Berlusconi il “patto del Nazareno”, un accordo che dà origine all’Italicum e alla riforma costituzionale, dalla quale però Berlusconi si sfilerà.
Dal Nazareno parte la sua rincorsa per Palazzo Chigi. Poco meno di un anno di vita per il governo Letta e arriva l’sms di Renzi con “Enrico stai sereno”. Letta lascia il governo, sfiduciato dal suo partito, Renzi ne prende il posto, momento immortalato nella storia dal gelido rito della campanella. Letta amareggiato parte per Parigi, da dove però nei giorni scorsi ha lanciato un appello all’unità e ad evitare la scissione.
Renzi guida il partito e il governo e gli ultimi tre anni sono stati costellati da successi, come il 40% alle europee, fallimenti e uno stillicidio di uscite. Cuperlo si dimette da presidente del partito e non vota l’Italicum. Escono Civati, Fassina, deriso da quel “Fassina chi?” pronunciato da Renzi mentre era viceministro all’Economia, e poi D’attorre, questi ultimi due entrano in Sinistra Italiana. D’Alema si ritiene già fuori dalla vita del partito e prepara la sua campagna per il no al Referendum.
Il malessere della sinistra del Pd, denominata da quel momento “minoranza”, si fa sempre più acuto, ma Bersani garantisce di voler rimanere nella ditta e combattere. Il referendum costituzionale divide il partito, una parte fa campagna per il No, un’altra per il Sì.
La sconfitta non ricompone le divisioni, anzi le amplifica perché costringe Renzi a dimettersi, mandando avanti il fidato Gentiloni, ma resta ben saldo alla guida del partito, dalla quale inizia a tempo pieno a progettare e a pensare come riprendere il controllo pieno del Pd, cercando di emarginare la minoranza e tornare a Palazzo Chigi.