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Una rubrica di Terzo Tempo (in onda sabato mattina dalle 11 alle 11.30), composta da tre episodi.
Episodio 2. La Storia di Khaled – Un Dottore Palestinese durante il genocidio
Oggi voglio raccontarvi una storia che mi sta particolarmente a cuore. È la storia di un medico, un uomo che ha dedicato la sua vita a salvare quella degli altri, anche quando il mondo intorno a lui cadeva a pezzi.
Khaled è un chirurgo generale che non ha mai lasciato il Nord di Gaza durante tutto il genocidio. Aveva terminato da poco la sua specializzazione a Gerusalemme, pronto a intraprendere il suo prossimo passo: un esame importante in Qatar per ottenere la certificazione dell’Arab Board. Ma il destino aveva altri piani per lui.
Il 5 ottobre, Khaled era tornato a Gaza per passare un fine settimana con la sua famiglia. Doveva ripartire l’8 ottobre. Ma non è mai più riuscito a tornare.
Prima della guerra, la sua vita era quella di un medico dedicato e instancabile. Lavorava in più ospedali, partecipava a progetti di ricerca, preparava corsi di chirurgia laparoscopica per gli studenti di medicina. Nonostante gli impegni, trovava sempre il tempo per la sua salute: la palestra quattro volte a settimana, il nuoto due volte, e almeno una volta al mese, una giornata al mare. Era una persona disciplinata, organizzata.
Ma poi è arrivata la guerra. E nulla è stato più come prima.
Dal primo momento, tutto è stato diverso. Non era come le altre guerre. Il bombardamento era incessante, la violenza senza precedenti. Per i medici, la guerra significava essere assorbiti completamente dagli ospedali, dimenticando sé stessi per dedicarsi ai feriti, al sangue, al caos. Ogni giorno diventava un susseguirsi di corse tra le corsie affollate, tra corpi feriti e urla disperate.
Le condizioni negli ospedali erano indescrivibili. L’acqua finiva, il cibo scarseggiava, l’elettricità diventava un lusso. A volte, non c’era neanche abbastanza acqua per lavarsi le mani dopo un intervento. Operavano senza anestesia, trattavano bambini senza sapere nemmeno il loro nome, dimettevano pazienti senza sapere dove sarebbero andati.
Non c’era il tempo di documentare nulla. Le ferite erano di ogni tipo, il flusso di pazienti inarrestabile. L’unica certezza era la scarsità di tutto: farmaci, attrezzature, energia. A volte, per far funzionare le sale operatorie, dipendevano da piccoli generatori, salvando ogni goccia di petrolio.
E poi c’erano le scelte impossibili. A chi dare priorità quando due pazienti avevano bisogno dello stesso intervento? Chi aveva più possibilità di sopravvivere?
Ma nulla ha colpito Khaled più della perdita personale. Ha perso sua madre, suo zio e cinque zie anziane e disabili. Non poteva raggiungerli. Per tre giorni ha cercato di sapere se erano vivi o se giacevano sotto le macerie. Tre giorni senza riuscire a coordinare un’ambulanza o i soccorsi. E quando finalmente ha avuto una risposta, era troppo tardi.
Anche lui ha rischiato la vita più volte. Ricorda l’assedio all’ospedale Al-Quds nel primo mese di guerra. Oltre 8.000 sfollati si erano rifugiati lì, ma i bombardamenti non si fermavano. L’ospedale stesso veniva colpito, mentre dentro si continuava a operare e a cercare di salvare vite.
Come si bilancia il dovere di medico con la paura per la propria famiglia? Per Khaled, era un tormento. Giorni senza sapere nulla di loro, strade distrutte che rendevano impossibile tornare a casa.
E il mondo? Il mondo guardava. Certo, c’erano amici solidali, persone che sostenevano, ma il genocidio è durato più di quindici mesi. Più di un anno di distruzione. E alla fine, anche dopo il cessate il fuoco, l’aiuto non è stato sufficiente. Gaza era in macerie. Gli ospedali non erano più ospedali, ma tombe. I medici erano morti, fuggiti o sopravvissuti in condizioni impossibili. Ancora oggi, il sistema sanitario è un’ombra di ciò che era.
Le ferite fisiche sono devastanti: amputazioni, ferite non curate, malattie croniche senza trattamenti. Ma il trauma psicologico è forse ancora peggiore.
E per Khaled? La guerra l’ha cambiato per sempre. Come medico, ha imparato a operare senza nulla, a fare l’impossibile con le mani vuote. Ma come uomo, ha perso troppo. Sua madre, la sua casa, il suo mondo. Eppure, va avanti. Perché non ha scelta. Perché chi è rimasto ha bisogno di lui. Perché la memoria di ciò che è accaduto non può svanire.
La sua storia è una delle tante, ma è una che merita di essere raccontata. Perché nel mezzo della distruzione, c’era ancora speranza. Nei volontari che affollavano i corridoi degli ospedali, nei medici che insegnavano ai giovani studenti anche nel mezzo della guerra, nei ragazzi che trovavano la forza di dare esami nonostante tutto.
Questa è la storia di Khaled. Ma è anche la storia di un genocidio che ha segnato una generazione. E che non deve essere dimenticata.
Episodio 1. Dalla Palestina all’Italia, un viaggio inaspettato
Mi chiamo Yara Abushab, ho 23 anni e sono nata e cresciuta a Gaza, Palestina. Non avrei mai immaginato che un viaggio di un mese avrebbe cambiato per sempre la mia vita.
Questa è la mia storia.
Ma non sarà l’unica che racconterò nelle prossime settimane.
Nei prossimi episodi racconterò altre due storie, due realtà che fanno parte della mia vita e della mia esperienza.
Tre episodi. Tre storie. Tre frammenti di una realtà che il mondo deve conoscere.
Ora, però, iniziamo dalla mia.
Era un fine settimana, il primo che passavo in Italia.
A Gaza, la mia famiglia si è svegliata sotto le bombe. Io ero qui, in un paese straniero, senza conoscere nessuno, senza parlare la lingua, senza sapere cosa fare.
Ogni telefonata a casa era un colpo al cuore. Sentivo il rumore degli attacchi in sottofondo, la paura nella voce di mia madre. Mio padre cercava di rassicurarmi, ma io sapevo che la loro vita era appesa a un filo. Come potevo stare tranquilla?
Alla fine di ottobre, ho preso una decisione difficile: chiedere asilo in Italia. Gera distrutta. Case, scuole, ospedali, strade… Tutto. I miei sogni, il mio futuro, la mia casa non esistevano più.
Intanto, la mia famiglia lottava ogni giorno per sopravvivere. La loro routine era surreale: uno cercava acqua, uno cibo, uno il pane. Mio padre mi raccontava che doveva fare la fila dalle cinque del mattino per poter usare un bagno condiviso con altre cento persone.
All’inizio della guerra, la mia famiglia viveva nel sud di Gaza, a Khan Younis. Lì, nei primi giorni, hanno aperto la porta di casa a tutti i nostri parenti e amici che fuggivano dal nord. La nostra casa si è trasformata in un rifugio per decine di persone. Non importava quanto fosse difficile, ci si aiutava a vicenda. Poi, a dicembre, la guerra li ha raggiunti. Hanno ricevuto l’ordine di evacuare.
Hanno dovuto lasciare tutto, ancora una volta.
Da una casa all’altra, da un rifugio all’altro, fino a quando non è rimasto più nulla. Alla fine, sono finiti in una tenda a Rafah, in mezzo a migliaia di altri sfollati.
Lì, hanno visto l’inferno. Il freddo, la fame, la paura. L’acqua contaminata che faceva ammalare tutti. Le notti senza dormire, con gli aerei che volavano sopra le loro teste.
Mia madre, che soffre di una malattia cronica, stava malissimo. Senza cure, senza medicine, senza un posto vero dove riposare. Non riusciva quasi più a camminare. Mio padre cercava di procurarle tutto il necessario, ma non c’era nulla. E io, da lontano, potevo solo ascoltare il loro dolore.
Ma il dolore più grande è arrivato quando ho perso 33 membri della mia famiglia. Tra loro c’era mia zia, che stava cercando di fuggire con i suoi quattro figli dopo aver ricevuto l’ordine di evacuazione. Portavano tutti una bandiera bianca, sperando che li proteggesse. Ma non è servito a nulla. Sono stati colpiti direttamente, senza alcun avvertimento. Mia zia e i suoi bambini sono stati uccisi lì, sulla strada, mentre cercavano solo di salvarsi.
Poi, Capodanno. Mentre il mondo festeggiava, io lanciavo una campagna di raccolta fondi per evacuare la mia famiglia. Non potevo fare altro. A marzo, dopo mesi di paura e speranza, sono riuscita a far evacuare mia sorella Tala. Ha solo 17 anni.
Quando è arrivata in Egitto, era denutrita, scioccata, con infezioni dovute alle condizioni disumane in cui aveva vissuto. Ma non mi sono fermata. Dovevo continuare. Per lei, per il resto della mia famiglia, per tutti quelli che non potevano scappare.
Nel frattempo, cercavo di costruirmi una nuova vita qui, in Italia. Ho iniziato un tirocinio all’Università Cattolica di Roma, poi mi sono trasferita a Milano. Studiavo, lavoravo in ospedale, miglioravo il mio italiano. E ogni giorno controllavo le notizie da Gaza, sperando di non ricevere un’altra chiamata che mi spezzasse il cuore.
Il 28 aprile, dopo sette mesi sotto una tenda, la mia famiglia è riuscita a fuggire. Li ho ritrovati stremati, terrorizzati, con negli occhi il peso di tutto ciò che avevano perso.
Hanno lasciato la loro casa, la loro vita.
Mio padre, professore universitario, ha vissuto sulla sua pelle quello che mio nonno aveva vissuto nel 1948, quando fu costretto a fuggire da Giaffa con solo i vestiti che indossava e la chiave della nostra casa. Quella chiave, simbolo del diritto al ritorno per tutti i palestinesi.
Oggi mio padre è un altro esiliato in questa diaspora infinita.
Sono qui per raccontare la mia storia, che non è solo mia, ma di milioni di palestinesi.
Sogno di tornare un giorno nella mia terra.
Sogno di completare i miei studi e diventare la prima dottoressa della mia famiglia.
Sogno una Palestina libera, una vita senza paura.
So che il cammino sarà lungo, ma una cosa è certa: io non mi arrenderò.
di Yara Abushab