Il “Muslim Ban” voluto da Donald Trump è di nuovo in vigore, anche se in versione ridotta, dopo che lunedì è stato ridimensionato da un pronunciamento della Corte Suprema.
Tantissimi cittadini di Iran, Siria, Yemen, Libia, Sudan e Somalia si vedranno di nuovo il visto rifiutato e le frontiere sbarrate, solo sulla base della propria nazionalità.
Attivisti per i diritti umani e avvocati volontari sono tornati nei principali aeroporti statunitensi per fornire aiuto e assistenza legale a chi dovesse rimanere bloccato, come nei mesi scorsi. Ma non si prevede lo stesso caos di allora, perché il provvedimento considera validi i visti già emessi.
Le isole Hawaii però non si rassegnano e – come nel marzo scorso – stanno preparando un ricorso perché il Travel Ban venga bloccato in tutti gli Stati Uniti.
Il procuratore delle isole Hawaii contesta le linee guida emesse dal dipartimento di Stato per attuare le raccomandazioni della Corte Suprema: sarebbero troppo restrittive. L’effetto sarebbe bandire dagli Stati Uniti anche persone che hanno parenti stretti nel Paese.
Secondo l’amministrazione Trump, nonni, zii, cugini e fidanzati non sarebbero “parenti stretti” e dunque non giustificherebbero una richiesta di visto per chi ha con loro un legame familiare (riguardo ai fidanzati c’è stato un contrordine dell’ultimo minuto).
“Quello che mi fa arrabbiare è che l’amministrazione Trump sta anche cercando di ridefinire il concetto di famiglia”, ha dichiarato Rama Issa-Ibrahim, presidente dell’Arab-American Association di New York.
La 29enne, che ha doppia nazionalità siriana-americana, ha deciso di rinviare il proprio matrimonio perché – con il Muslim Ban in vigore – non può invitare negli Stati Uniti gran parte dei propri parenti.
Il Muslim Ban riguarda cittadini di Iran, Siria, Yemen, Libia, Sudan e Somalia che non abbiano “comprovati legami familiari” negli Stati Uniti, oppure esigenze di lavoro o di studio. Esclude anche i rifugiati siriani, compresi quelli che gli Stati Uniti si erano impegnati ad accogliere durante l’amministrazione Obama.
Lunedì scorso la Corte Suprema aveva reintrodotto parte del Travel Ban bloccato dai giudici federali di grado inferiore, ritenendolo valido solo per i cittadini di quei sei Paesi che non abbiano “comprovati legami con individui ed enti negli Stati Uniti”.
Nel pronunciamento della Corte Suprema – che ha dato una prima vittoria al Presidente – è stato decisivo il voto di Neil Gorsuch, il giudice nominato proprio da Trump e confermato ad aprile al Senato dopo che i repubblicani avevano cambiato le procedure di voto.
I magistrati statunitensi però non si arrendono. “Nelle Hawaii consideriamo ‘parenti stretti’ molte delle persone che il governo federale intende escludere dalla definizione”, ha dichiarato il procuratore generale delle isole Douglas Chin.
Nella mozione al giudice federale, Chin chiede quindi di intervenire contro le linee guida dell’amministrazione Trump, rivendicando il diritto dello Stato delle Hawaii di poter continuare a “proteggere i propri residenti e i loro cari da un ordine esecutivo illegale ed incostituzionale”.
Lo scorso marzo le Hawaii sono state il primo stato a bloccare la seconda versione del Travel Ban, considerato un “Muslim Ban” e quindi per questo incostituzionale, discriminatorio nei confronti dei musulmani.