
Il lavoro negli ultimi anni è stato oggetto di riforme che hanno seguito gli interessi dell’impresa e della finanza capitalistica. E’ accaduto, sia in Europa che in Italia, tutte le volte che si sono modificate le leggi che regolano il mercato del lavoro. Domanda: è possibile, invece, riformare il capitalismo e la finanza tenendo conto degli interessi del lavoro e i suoi diritti?
Memos ne ha parlato con Danilo Barbi, della segreteria nazionale della Cgil, e con l’economista Luca Fantacci, dell’Università Bocconi. Entrambi hanno partecipato al convegno della Cgil, il 2 dicembre scorso a Roma, su “Riforma del capitalismo e democrazia economica”, titolo anche di una raccolta di brevi saggi di studiosi, sindacalisti, economisti edito da Ediesse.
L’intervista inizia dalla Carta dei Diritti Universali del Lavoro, presentata dalla Cgil in questi giorni. Il contenuto della Carta dei Diritti cerca di dare una risposta affermativa al nostro interrogativo. La Carta è un documento di 90 articoli, e che diventerà una proposta di legge di iniziativa popolare, con cui il sindacato di Susanna Camusso ha riscritto i diritti del lavoro, a quasi cinquant’anni dallo Statuto dei Lavoratori del 1970. E’ una Carta che si muove controcorrente rispetto allo spirito dei tempi, uno spirito sintetizzato dalle legislazioni sul lavoro di molti paesi europei, in particolare dell’Italia. Licenziamenti facili, demansionamenti, controlli a distanza dei lavoratori sono, ad esempio, i punti centrali delle norme contenute nel Jobs Act.
Danilo Barbi definisce la Carta un appuntamento con la storia: «purtroppo – racconta – anche buona parte della storia della sinistra italiana ha smarrito il suo senso e, alla fine, non pensando più di volere o potere riformare il capitalismo, e quindi accettando tutte le forme di capitalismo così com’è, si è ridotta lei a riformare il lavoro, nel senso di peggiorare le condizioni dei diritti. In questo modo, però – sostiene Barbi – si è abbassata l’ambizione del modello produttivo, la qualità dei processi, dei prodotti, dell’utilizzo delle risorse e delle persone e delle loro potenzialità, creatività e intelligenza. Siamo arrivati ad un lavoro che, essendo sempre più povero nei diritti, è anche un lavoro povero nella professionalità».
Cosa prevede la Carta dei Diritti?
«E’ il tentativo di rispondere alla trasformazione del modello produttivo del postfordismo. Oggi – spiega Barbi – siamo di fronte ad un nuovo modello produttivo, quello dell’impresa a rete. Secondo questo modello, una serie di lavori che si facevano in azienda sono stati decentrati o in una filiera di appalti oppure in lavori individuali nella forma dei parasubordinati o delle partite Iva. Noi abbiamo pensato di fare una proposta di diritti per tutte queste persone. Non più diritti solo per i lavoratori subordinati, ma anche per i parasubordinati, lavoratori autonomi, partite Iva».
Lei prima diceva che oggi il lavoro è sempre più povero nei diritti. A chi serve questo lavoro svalutato, nei diritti e anche nei costi?
«Serve a non chiedere niente alle forme di organizzazione delle imprese. Le imprese fanno come vogliono e gli unici che devono cambiare sono il lavoro e i lavoratori. Purtroppo la cosa è di una semplicità terribile. La sostanza è questa: non si chiede al capitalismo di riformarsi, non gli si chiede di scegliere la produzione reale anziché le attività finanziarie esasperate, non gli si chiede di riportare la finanza alla sua funzione caratteristica di tenere insieme risparmi e investimenti, di utilizzare le ricchezze che ci sono per crearne delle nuove. Queste politiche, purtroppo, non vengono fatte. Non si chiede una riforma del capitalismo e della finanza».
Perché i governi non riformano il capitalismo la finanza? Perché si fa fatica a farle queste riforme?
«Si fa fatica – risponde l’economista Luca Fantacci – perché la finanza ha un grosso potere di ricatto nei confronti del potere politico al quale, invece, spetterebbe dettare le regole del gioco, bilanciare gli interessi, tutelare i diritti. Tale potere di ricatto deriva dal fatto che gli stati sono molto indebitati e l’esposizione dei governi ai creditori fa sì che le politiche economiche, del lavoro, industriali, finanziarie, siano dettate da interessi che non hanno a che fare direttamente col lavoro, con i cittadini, ma con la tutela per lo meno presunta degli interessi degli investitori internazionali. La difficoltà di tutelare i diritti deriva certamente dal fatto che tali diritti rappresentano, in prima battuta, un costo per le imprese. Per questa ragione c’è un’opposizione che arriva proprio dalle imprese e dalle banche che le finanziano. E’ però una visione miope: è chiaro che i diritti possano rappresentare un costo nel breve periodo, ma sono anche un investimento in vista di un guadagno nel medio e lungo termine. La difesa dei diritti del lavoro è, infatti, nell’interesse di un recupero di competitività, di un mantenimento di competenze che con la precarietà si perderebbero. Nel lungo termine sia l’Italia che l’Europa devono puntare sul rafforzamento dei diritti del lavoro e farlo non soltanto nell’interesse dei lavoratori ma anche della forza del sistema produttivo nel suo complesso».
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