Davide Enia è uno degli interpreti più originali ed intensi della nostra scena contemporanea. E con lo spettacolo L’Abisso, che ha già ottenuto importanti riconoscimenti ed è tratto dal suo romanzo Appunti per un naufragio, sbarca al Piccolo Teatro Grassi di Milano per affrontare l’indicibile tragedia contemporanea degli sbarchi sulle coste del Mediterraneo.
Lo spettacolo è dedicato al rapporto che Davide ha creato nel tempo con l’isola di Lampedusa e con quello che succede, ma anche con una serie di sentimenti misti e intensi che riguardano il suo vissuto personale e la sua famiglia. Proprio perchè quello che ha visto e vissuto a Lampedusa non può essere scisso dai sentimenti più profondi per la propria famiglia.
Nel momento in cui, trovandomi a Lampedusa, cercavo di rispondere alla domanda “come si può raccontare il tempo presente nel momento della crisi” mi si sono spalancate due strade che andavano percorse entrambe nel tentativo di scrivere. Il primo è prendere atto del fallimento della parola che non riesce a contenere la pienezza di quello che sta avvenendo. Ci manca una metà sovrabbondante delle storie delle persone che attraversano il mare e il deserto. E ci manca perchè la loro elaborazione non arriva nella lingua della loro culla, ma avviene in una lingua terza – inglese, francese o tedesco. L’altro motivo di questa mancanza di restituzione piena è il trauma. Hanno subito un trauma talmente devastante che c’è bisogno di un lungo tempo affinché venga accettato, metabolizzato, compreso e infine nominato.
Abbiamo un esempio abbastanza chiaro per capire più o meno cosa succede come statistica, con un’unica eccezione luminosa che è stato Levi: il lager, una delle parole chiave per capire anche questo presente. I sopravvissuti ai lager ci hanno messo vent’anni e più per iniziare a nominare quello che gli era successo. Noi tra 10-15 anni sentiremo da loro il costo che ha una vita nell’attraversata del deserto o quello che accade al corpo, per quanto il corpo sia comunque narrativo e ci permetta anche oggi di leggere di rimbalzo i segni delle violenze, le mutilazioni, le torture e gli stupri che avvengono in Libia.
L’altro aspetto è legato al fatto che rispetto a quello che andavo studiando o leggendo, c’era un grande scarto e la differenza era data dal fatto che a Lampedusa coi lampedusani, col personale medico o con la guardia costiera io parlavo in dialetto, nominando le cose immediatamente secondo la lingua della nostra origine. Mi sono trovato, senza nessun merito, il vocabolario per poter parlare con queste persone, soprattuto nel momento in cui si spalancava il loro trauma. La parola celebra il silenzio, ma ero in grado di processare quel silenzio perché ci sono stato costruito come essere umano. Da noi ‘a megghiu parola è chidda ca ‘un si dici, la migliore parola è quella non detta. Questo sprofondare dentro la mia lingua, che significa sprofondare dentro la costruzione del mio linguaggio, e quindi dentro m stesso, mi ha in qualche modo aperto la rete di relazioni sociali che è la mia famiglia, che mi impedisce di sprofondare dentro il mio stesso abisso.
Non è un caso che la figura di tuo padre sia quella che pronuncia la frase definitiva di quello che ha visto la prima volta che ha assistito a uno sbarco. Dice la cosa che va detta.
Mio padre, uomo di pochissime parole, quando vediamo insieme il primo sbarco – perchè io seguo l’impulso del mio intuito di portare mio padre a Lampedusa – io non ho le parole e domando a lui cosa abbiamo visto. E anche lui dice di non avere le parole per esprimere lo spaesamento provato nel vedere queste persone e lo spaesamento che ha letto nei loro occhi. E poi mi padre fa un’operazione che non credevo fosse possibile nominare in maniera così spudorata: crea un correlativo oggettivo tra lo sbarco e il cancro che ha colpito suo fratello, mio zio Peppe. È una di quelle situazioni in cui viene da gridare “ma che cosa posso fare?” e non ottengo risposta. Facendo questo, papà mi offre una prospettiva: quella frase è talmente forte che mio zio diventa da quel momento uno dei protagonisti del lavoro. La malattia di mio zio e il rapporto tra me e la sua malattia è talmente dentro al romanzo perchè quella frase di mio padre era così forte da non permettermi di fare finta di nulla. Non potevo non intruderci dentro anche questo mio naufragio personale. In qualche modo la malattia di mio zio è stato l’ago e il filo che ha permesso a me e mio papà di costruire quelle parole che erano mancate per iniziare a nominare tutto. La domanda è quindi: perchè mi sono portato proprio mio padre? Io faccio parte di un intero bacino culturale in cui i padri sono muti e gli uomini e le donne vengono cresciuti dalle donne. Le madri ci hanno insegnato il rapporto con il Mondo. L’empatia che nasce dallo stomaco è materna, ma lo sguardo che guarda è sempre quello del padre. E dal mancato dialogo tra stomaco e occhi nasce il conflitto. È talmente nuovo quello che sta succedendo che bisogna mettere in discussione lo sguardo nei confronti della realtà. Servono pensieri, categorie e probabilmente anche parole nuove per processare quello che accade. Il nostro occhio è ancora paternalista e neo-coloniale, uno sguardo intrinsecamente segnato dal paternalismo e dal patriarcato. Noi siamo occhi nati nel millennio scorso, dobbiamo quindi cambiare il nostro sguardo per comprendere l’assoluta novità di questo evento gigantesco che è semplicemente la storia nel suo darsi in atto.
Ci sono tantissimi linguaggi diventati strumenti di scena appassionati ed appassionanti per il pubblico. Dal gesto, come dicevi, alla musica. Definirla musica è un po’ riduttivo, perchè si tratta di una vera e propria partitura eseguita in scena da Giulio Barocchieri e che viene composta dal vivo con un meccanismo di accumulo. Si è riflettuto sull’idea di trauma, che proprio con l’accumulo ha a che fare.
Esatto. C’è proprio una soluzione registica in cui Giulio accumula rumori esattamente come si accumula l’esperienza del trauma, fino al momento in cui io riprendo a raccontare e questi rumori si sciolgono in un’armonia e poi in una melodia che indicano il processo terapeutico che io stesso ho sperimentato. Credo che andare in terapia sia stata una delle cose migliori della mia vita. È proprio importante sentire la propria voce nominare i fatti, capire che ci è successo qualcosa. Da quel momento inizia il distanziamento tra te e i fatti che hai vissuto. Io devo chiaro che la musica avrebbe dovuto essere sporca e distorta, perché sporca e distorta è la realtà della frontiera che ho conosciuto. Dentro questo, però, ci sono momenti di altissima pietas che fanno sì che alcune persone si portino davvero il peso del Mondo sulle spalle. Questo è il momento storico che stiamo vivendo, è il momento in cui se dovessi darti un’immagine: i figli si separano dalle madri e dai padri continuamente e si separano anche da morti, perchè a volte recuperiamo i corpi dei figli in mare o il corpo delle madri e l’altro rimane perso nell’abisso profondo. Ed è quello che sta continuando a succedere da un quarto di secolo.
Un’ultima precisazione da Davide Enia:
C’è un elemento che mi ha sempre molto interessato rispetto al modo in cui viene comunicato lo spettacolo, e voi di Radio Popolare grazie a Dio non l’avete fatto. Ma proprio per questo mi sento di dirlo: se uno legge i giornali e la stampa si parla spesso di Enia che affronta il dramma dei migranti. Io non uso mai la parola migrante, né nel romanzo né nello spettacolo. È una scelta nata dal fatto che a Lampedusa non la usa nessuno. Non la usano i medici, non la usano i pescatori e non la usa la Guardia Costiera. Le persone mi chiedono “e come li chiamano”? Persone.
Foto dal profilo Facebook di Davide Enia