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David Murray: that’s jazz!

David Murray

Non tutto il male viene per nuocere. Nella prima delle sue due esibizioni alla 33esima edizione di “Ai confini tra Sardegna e jazz”, David Murray, uno dei migliori sax tenori in attività, avrebbe dovuto presentarsi con il suo quartetto: ma qualche giorno prima Orrin Evans, il suo pianista, si è infortunato in una banale caduta, ed è rimasto a casa.

Evans ha anche cercato di persuadere Murray che avrebbe potuto essere ugualmente della partita, ma il sassofonista non si è lasciato convincere ad avere un pianista con la mano destra appesantita da un’ingessatura all’avambraccio. E non si è scomposto minimamente all’idea di suonare in trio, anzi. Ha visto l’aspetto positivo di questo contrattempo: “Suonare senza pianoforte mi dà più libertà”, ci ha detto.

Murray ci raccontava fra l’altro che trovare dei pianisti con cui riesca a trovarsi in sintonia, che suonino in una maniera per lui congeniale, non è per niente facile. Ci si chiederà allora perché il quartetto sia un suo organico abituale. Perché un quartetto ha più appeal per il pubblico, perché la presenza del pianoforte consente una esibizione più articolata, e perché con un pianista Murray durante un set può prendersi più pause.

L’idea di una maggiore libertà di uno strumento come il sax in assenza del pianoforte ha una storia nel jazz. Il trio sax, contrabbasso, batteria è una formula per niente scontata nella vicenda di questa musica, una formula che si è affacciata in maniera importante quando il jazz moderno era ormai maturo, e sulla scena albeggiava il free jazz.

Nel ’57 il sax tenore Sonny Rollins, che dalla fine degli anni quaranta era emerso come uno dei più brillanti esponenti del jazz moderno, incontra il sax alto Ornette Coleman, il cui free jazz sta per esplodere sulla scena del jazz, e Sonny e Ornette si esercitano assieme. Nello stesso anno Rollins adotta la rivoluzionaria formula di farsi accompagnare solo da contrabbasso e batteria, rinunciando al pianoforte, cosa che consente al sassofonista di muoversi più agilmente, con meno vincoli.

È appunto in trio piano, contrabbasso e batteria, che nel ’58 Rollins registra uno dei suoi capolavori, la Freedom Suite, incisione epocale sia sotto il profilo musicale che per il messaggio che lancia: Rollins ricorda che i neri sono ancora oppressi e discriminati, e parla dunque della libertà che i neri devono conquistare con una soluzione formale di grande libertà nella musica. Poi nei primi mesi del ’59 Coleman inciderà con un quartetto che, con due fiati, contrabbasso e batteria, farà scalpore anche per l’assenza del piano; e più avanti anche Ornette utilizzerà la formula sax/contrabbasso/batteria.

Se Murray suonando in trio ha approfittato dell’opportunità di una maggiore autonomia, per il pubblico è stata la ghiotta occasione di ascoltare Murray come assoluto protagonista. Un po’ come quando leggi Scott Fitzgerald o Hemingway e pensi “ecco, questo è il romanzo”, quando ascolti Murray ti dici “questo è il jazz”.

Tra i brani che Murray ha proposto a Sant’Anna Arresi con Jaribu Shahid al contrabbasso e Nasheet Waits alla batteria, c’era Chelsea Bridge di Billy Strayhorn, un brano molto legato alle interpretazioni che ne diede Ben Webster, a cominciare dalla prima incisione, quella di Duke Ellington con la sua orchestra nel ’41, con un solo di Webster. Webster è uno dei grandi sax tenori a cui è impossibile non pensare ascoltando Murray, che fra l’altro lo ricorda un po’ anche nell’aspetto: nel sax tenore di Murray senti Webster, senti un altro dei grandi sassofonisti affermatisi negli anni trenta, Coleman Hawkins, senti una certa “grana” del jazz, lo spessore della storia, ma senza nessun passatismo o manierismo, senti questa storia come una tradizione sempre in movimento, che evolve, e non a caso nei soli di Murray un momento o l’altro viene fuori Albert Ayler, sax tenore che fu una delle figure più fulgide del free jazz.

Ayler morì nel ’70, quando Murray aveva appena quindici anni, ma la poetica di Ayler è stata una delle influenze decisive sul giovane Murray, che intitolò uno dei suoi album di esordio Flowers for Albert. Californiano, Murray approdò ventenne a New York, sviluppò uno stile che può essere considerato un ponte tra il free jazz di sax tenori come Ayler e Archie Shepp e i monumenti del sax tenore emersi prima del jazz moderno degli anni quaranta come Webster e Hawkins, diventò uno dei personaggi più importanti del fenomeno del loft jazz della seconda metà degli anni settanta, e nello stesso periodo fu uno dei fondatori del fortunato World Saxophone Quartet, che gli assicurò presto una notorietà internazionale. Oltre che valente sax tenore, Murray è anche uno dei maggiori specialisti del clarinetto basso nel jazz contemporaneo.

Qui David Murray al clarinetto basso durante la sua esibizione in trio.

Ai Confini tra Sardegna e jazz” ha presentato anche un altro notevole sax tenore, di una generazione molto più giovane di quella del sessantatreenne David Murray, il trentacinquenne James Brandon Lewis, un musicista di cui si è parlato molto da quando Brandon Lewis, nato a Buffalo, nel 2012 si è trasferito a New York: Lewis è considerato uno dei più brillanti nuovi sax tenori, e, anche come leader e compositore, una delle figure più interessanti emerse dalle nuove leve. E’ anche un personaggio molto rappresentativo della iper-preparazione e della trasversalità di interessi di molti giovani protagonisti del jazz di oggi: negli anni novanta Lewis è cresciuto immerso nella cultura hip hop, nel periodo universitario ha poi studiato e praticato il jazz mainstream (fra l’altro con un grande sax tenore come Benny Golson, classe 1929), ma ha poi studiato anche con uomini dell’avanguardia come Wadada Leo Smith e Matthew Shipp, e una volta a New York ha collaborato con William Parker, guru della più avanzata scena afroamericana della Grande Mela.

A Sant’Anna Arresi James Brandon Lewis si è presentato per cominciare in duo, con Chad Taylor, batterista molto dinamico, di grande inventiva in soluzioni ritmiche e timbriche sempre diverse di pezzo in pezzo, e sempre estremamente limpide; spesso Taylor passa dalla batteria alla mbira, lo strumento a lamelle diffuso con vari nomi in diverse parti dell’Africa. Sax tenore robusto, dal suono virile, che rivela diverse influenze, non ultima quella di Coltrane, Lewis ha anche una forte inclinazione per la melodia, e sull’aspetto melodico lavora molto nelle sue improvvisazioni. In un brano ha inserito via via nell’improvvisazione il motivo di Over The Rainbow, a partire da un accenno e poi per segmenti man mano più estesi (James Brandon Lewis sarà presto di ritorno in Italia, in quartetto: dal 19 al 22 novembre a Catania, e inoltre il 23 a Lugano).

Il festival ha pensato di riunire David Murray e James Brandon Lewis in un quartetto inedito, sotto l’intestazione Sant’Anna Arresi Black Quartet; al contrabbasso Jaribu Shahid; avrebbe poi dovuto esserci Tyshawn Sorey, batterista al fulmicotone, che ha dovuto però dare forfait per ragioni di salute, ed è stato rimpiazzato da Chad Taylor.

Lo scopo del Black Quartet era quello di rendere omaggio al compianto Butch Morris, interpretando suoi brani: ma quando in un piccolo gruppo ci sono due sax tenori, la storia del jazz ci insegna che l’agonismo è la regola. Nelle tenzoni fra strumenti, nessuna nel jazz ha avuto la popolarità di quella fra due sax tenori, un vero classico: pensiamo a Wardell Gray/Dexter Gordon, Sonny Stitt/Gene Ammons, Zoot Sims/Al Cohn, Johnny Griffin/Eddie Lockjaw Davis. Sfide magari anche molto complici, cordiali, amicali, come in particolare quelle tra Sims e Cohn, ma in cui comunque la dimensione del far vedere chi sei è molto presente. Dunque era difficile non guardare a questo quartetto anche da questa prospettiva, ed era improbabile che in questa chiave almeno un po’ non la vivessero anche David Murray e James Brandon Lewis: Murray nella posizione di chi deve difendere la propria reputazione di fronte ad un giovane che si sta affermando, Brandon Lewis in quella di chi non può sfigurare nel confronto con uno dei maggori sax tenori dagli anni settanta.

Fra “Ai confini tra Sardegna e jazz” e Butch Morris, mancato prematuramente nel 2013, c’è stato un grande feeling sul piano dei progetti artistici e non secondariamente su quello umano. La fama di Butch Morris è oggi legata soprattutto al metodo della conduction da lui elaborato, una forma di composizione/improvvisazione, con protagonisti organici di varia estensione e con assortimenti strumentali diversi, guidata da Morris con un sistema di gesti e segnali. Ma prima Morris è stato anche un cornettista e un compositore di brani (nel senso convenzionale) nei gruppi dell’avanguardia: anche lui californiano, ha collaborato strettamente con David Murray nella prima fase della carriera del sassofonista; e a fianco di Murray è stato spesso al contrabbasso Wilber Morris, fratello di Butch. Vario, vivace, con temi di grande sensibilità, il repertorio di Butch Morris toccato dal quartetto merita decisamente di essere valorizzato.

Murray nel set ha ricordato con calore il suo rapporto artistico e la sua amicizia con Morris. Il sassofonista è apparso in forma ancora più smagliante che nel concerto in trio: un sax tenore degli anni trenta ma iniettato di free, con soli pieni di fantasia, dove dopo fischi e sovracuti o fra grovigli di note si aprono magari di colpo squarci melodici folgoranti, e tutto è sempre ricondotto ad una logica.

Tra Murray e Brandon Lewis il clima non era certo quello di un duello all’ultimo sangue: e Brandon Lewis aveva l’aria di non essere nella logica della sfida. Per quanto lo facesse in maniera sorniona era invece evidente che Murray ci teneva a ribadire la propria statura e a non lasciare margine a dubbi. Ci è riuscito senza difficoltà. E’ apparso più profondo, più espressivo, più ricco di colori, più disinvolto, rispetto ad un Brandon Lewis a volte un po’ meccanico e con un suono un po’ chiuso. Ma per fare della musica interessante non è indispensabile essere dei fuoriclasse assoluti del proprio strumento, e il talento di Brandon Lewis andrà misurato sul complesso delle carte che ha da giocare, tanto come strumentista quanto come leader, come artefice di progetti musicali originali. Per il pubblico in ogni caso è stato un piacere poter assaporare o riassaporare la particolare suggestione del confronto diretto tra due sax tenori che ha avuto una storia così gloriosa nel jazz di una volta.

Qui David Murray, prima al clarinetto basso e poi al tenore, e James Brandon Lewis, in un passaggio del loro set.

David Murray
Foto dalla pagina FB di David Murray https://www.facebook.com/davidmurraymusic/
  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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