Approfondimenti

David Lynch, il vero visionario del cinema contemporaneo

David Lynch

Dopo l’annuncio della morte del regista visionario David Lynch, nella puntata di PlayGround andata in onda venerdì 17 gennaio 2025, Elisa Graci ha parlato di lui con il professore di cinema all’università di Bologna Roy Menarini.

Una notizia che ha rattristato molti di noi e molti appassionati e studiosi del cinema come te, vero?

E’ una notizia che arriva un po’ a ciel sereno, anche se con qualche nuvola perché Lynch aveva annunciato seri problemi di salute che lo tenevano lontano dalla possibilità di girare nuovi film. Insomma, nessuno sapeva, visto quanto era circondata la sua vita dalla riservatezza, come stessero esattamente le cose. Abbiamo capito poi troppo tardi che era molto grave. Comunque, detto questo, ovviamente adesso parte la riflessione su quello che Lynch è stato, su quello che Lynch ha fatto e su quello che Lynch ha rappresentato. Tre aspetti che sono tutti intrecciati tra di loro perché l’aura di culto che Lynch ha sviluppato è tra le poche veramente meritate nella storia del cinema moderno e contemporaneo per la capacità che lui ha avuto di rivoluzionarlo. E non solo ha rivoluzionato il cinema, il grande schermo, con i suoi dieci lungometraggi, ma ha anche rivoluzionato la televisione con “Twin Peaks”. Quindi due mezzi in un colpo solo, in una sola vita, che sono stati segnati dalla sua capacità artistica. Oltre alla parola culto, un’altra parola meritata è visionario. Purtroppo, oggi è un aggettivo che non si nega più a nessuno. In verità l’unico vero grandissimo visionario del moderno e del contemporaneo è David Lynch perché ha avuto proprio delle visioni, cioè la capacità di trascendere il mondo reale, di andare a cercare, come diceva lui, a pescare. Faceva proprio questa idea di fishing, di andare a pescare le idee più profonde, più inconsce, più indicibili e trasformarle in forme cinematografiche fin dal suo esordio di “Eraserhead – La mente che cancella” del ’77. Quindi da lì è nata tutta la grande grande carriera di Lynch che è stata una carriera giocata sostanzialmente su trent’anni. Da “Eraserhead” del ‘77 a “Inland Empire”, il suo ultimo lungometraggio del 2006.

David Lynch ha avuto una vita da vero artista, un artista a tutto tondo poiché lui era appassionatissimo. Ha iniziato come pittore, addirittura andò in Europa per studiare pittura.

Sì, andò in Europa a studiare pittura. Fu in rapporto con importanti pittori della Neoavanguardia e dei movimenti artistici euroamericani negli anni ‘60 e ‘70. Questo è un dato importantissimo. Non si tratta solo di una creatività torrenziale, per cui Lynch è sempre stato un grande appassionato di tutte le forme delle arti visive, a cui si aggiungono le arti sonore e la musica. Ma non solo la musica, anche la manipolazione del suono, il sound design, erano una grande passione di David Lynch. Ma ci dice anche, come dire, qual è la scatola nera del suo cinema, quali sono le basi perché quando lui diventa un pittore anche abbastanza rinomato dell’area di quella corrente della pittura Materica, ci sono alcuni dei suoi quadri iniziali dove camminano delle formiche addirittura sulla superficie del quadro. Quando comincia ad essere ospitato nelle gallerie, nei circoli artistici, il cinema arriva quasi come una costola, una costola di un’attività artistica, tanto è vero che il già citato “Eraserhead” è un film d’avanguardia, un film sperimentale, la cui storia e narrazione è sicuramente meno importante della concatenazione di visioni tra arti visive e cinema che lui mette in atto. E solo a quel punto, lui capisce che il cinema è in verità la grande arte dell’inconscio ed è la possibilità che lui ha per far venir fuori tutte le visioni più profonde e anche più disturbanti, conturbanti che lui ha. Tanto è vero che dopo un paio di film con cui deve fare dei compromessi al rialzo nel caso di “The Elephant Man”, un po’ al ribasso nel caso di “Dune”, con la grande produzione. Dall’86 di “Velluto blu” esplode questa creatività perché Lynch riesce a interrogare contemporaneamente il paesaggio americano e i suoi generi. Pensiamo a “Cuore selvaggio” che è un grande road movie, e dall’altra parte a trascinare tutta questa visione americana in un mondo dark, in un mondo assolutamente personale, in cui il bene e il male lottano, indivisibili, inseparabili l’uno dall’altro. Che è poi il grande tema che lo porta avanti in tutte le altre opere successive, compreso “Twin Peaks”.

Il suo cinema ha avuto grande successo sia di critica che di pubblico. Come te lo spieghi, pur essendo il cinema di Lynch non immediatamente accessibile?

Anch’io mi sono fatto molte volte questa domanda, perché in verità c’è nei confronti del mondo di Lynch un affetto sterminato. Visto che i suoi mondi, i suoi universi, la maggior parte delle volte, non sempre, ma la maggior parte delle volte sono estremamente inquietanti, non è automatico. Non basta l’artista maledetto per spiegare questo enorme affetto nei confronti di Lynch che tocca davvero tutti, anche il grande pubblico. Basti pensare che la morte di Lynch è finita come prima notizia sui grandi quotidiani di tutto il mondo, davanti alle notizie di politica internazionale. Questo mi ha molto stupito. Io credo che ci sia, come dire, la sensazione che i grandi artisti riescano a creare delle connessioni, cioè, toccano dentro di noi. E nel caso di Lynch, anche se il mondo era tutto oscuro, c’è una positività di fondo dell’idea artistica, una passione nei confronti dell’arte in quanto tale, una assenza di qualsiasi moda, di qualsiasi idea di seguire altro che la propria integrità artistica perché Lynch è stato una delle persone più integre artisticamente che ci possano venire in mente. È riuscito a comunicare questo aspetto. Un critico americano ha detto che tutti i film di Lynch creano una Lynch Town, una specie di città di Lynch nella quale ci piace abitare, anche se è molto oscura e spaventosa, e credo che questa Lynch Town ci abbia conquistato tutti. Siamo un po’ tutti suoi cittadini.

Iniziamo a parlare ora dei film. Il suo secondo lungometraggio, probabilmente quello che gli ha dato il grande successo, “The Elephant Man” era partito nelle mani di Mel Brooks che poi lo affidò a Lynch.

Mel Brooks era il produttore di “The Elephant Man”. Quando vide “Eraserhead” capì che forse Lynch avrebbe potuto, sia pure adeguandosi un pochino a una narrazione un po’ più lineare, un po’ più normale, e dirigere “The Elephant Man” gli avrebbe detto: “David, tu sei completamente pazzo, ma sei la persona che fa per me”. Questa sarebbe stata la frase di Mel Brooks a David Lynch e mai scelta è stata migliore perché David Lynch è riuscito a raccontare una storia straziante, indimenticabile, di un uomo, tra l’altro veramente esistito, John Merritt, sfigurato in maniera elefantiaca al volto e allo stesso tempo a fare una ricerca sul bianco e nero, sul volto, sul mostro, sul “freak”, su tutto quanto, arrivando al cuore degli spettatori, ma contemporaneamente mantenendo anche continuamente questa sua riflessione sul raccapricciante e sulla normalità e la anormalità. E qui, come dicevi tu, nel 1980, l’enorme successo di “The Elephant Man” gli dà un po’ le chiavi di tutto quanto. Ed è qui che c’è il passaggio fondamentale perché, quando lui decide di girare “Dune”, la prima versione, non quella ovviamente recente di Villeneuve, tratta da Herbert, lui fa una scelta assolutamente personale, una rilettura visionaria di un materiale già di per sé visionario e che fa completamente suo con delle forzature che evidentemente sono artistiche ma molto singolari. Il film viene molto rifiutato e quindi lui capisce che forse questo rapporto con la grande Hollywood, con il grande budget, non fa per lui. È per quello che lui poi trova una sua collocazione industriale, con il cinema d’autore hollywoodiano, ma dove possa portare avanti le sue poetiche. E quindi il nuovo riavvio avviene con “Velluto blu” dell‘86, dove la sua nuova e seconda carriera riparte senza più mollare poi il colpo.

Qui vediamo per la prima volta anche Laura Dern, che diventerà una delle sue attrici di riferimento per quanto riguarda le protagoniste femminili dei suoi film. Arriviamo agli anni ‘90 che sono veramente degli anni incredibili per la produzione di David Lynch. Cominciano con il film “Wild at Heart”, “Cuore selvaggio”. Cosa ci puoi dire di questo film con Laura Dern e Nicholas Cage?

È un film assolutamente indimenticabile. È assolutamente di una libertà selvaggia, a sua volta. Io mi ricordo che quando vidi “Cuore selvaggio” da ragazzino pensai “Ma si può fare questo al cinema? È possibile fare questo al cinema?”. È un film che ti prende per il collo e comincia a sbatterti contro un muro, contro un altro muro, contro il pavimento, contro il soffitto per due ore, senza nessuna reticenza. È il film più smodato, più incredibile, più anarchico di Lynch, che lo trae tra l’altro dal materiale narrativo di Barry Gifford, che è lo scrittore con cui lui lavora. È un viaggio nella realtà e nella fiaba. Si mescola “Easy Rider” e “Il mago di Oz”. Si mescola Elvis Presley e l’heavy metal. Si mescola qualsiasi cosa, all’interno di questa storia d’amore fiammeggiante, dove tra l’altro Lynch comincia anche a giocare con la tradizione del cinema americano, sempre stravolgendolo come un guanto, ma del resto anche il precedente “Velluto blu” era così. Ci torno solo per dire che mi è stata ricordata proprio ieri una frase dello scrittore David Foster Wallace che diceva “Un cineasta come Quentin Tarantino ama far vedere quando un orecchio viene tagliato. A David Lynch interessa l’orecchio”. E in effetti se qualcuno ricorda “Velluto blu”, comincia con un orecchio tagliato sull’erba e la macchina da presa che si avvicina a tal punto da entrare dentro l’orecchio facendo, come dire, una cosa surreale, di quasi surrealismo del corpo. Il binomio “Velluto blu” e “Cuore selvaggio” funziona un po’ così, dove l’idea è che non ci sia un blocco, non ci sia un perimetro. La macchina da presa può arrivare ovunque, raccontare le peggiori nefandezze ma anche contemporaneamente gli amori più assoluti, come quello tra Sailor e Lula. Attenzione perché, come tu dicevi, gli anni ‘90 sono quelli in cui poi lui passa immediatamente a “Twin peaks”. Anche “Cuore selvaggio” e “Twin peaks” sono praticamente nello stesso ambito creativo ed è il momento in cui si apre un decennio nel quale lui sembra avere davvero la possibilità di fare tutto quello che vuole.

Nell’immaginario di tutti noi Laura Palmer e tutti gli altri personaggi hanno davvero un ruolo di grande fascino. Dei personaggi costruiti in un modo incredibile e anche filmati in un modo assolutamente lynchiano, che sappiamo è diventato anche un aggettivo per descrivere determinati stili anche di ripresa.

Sì, perché Lynch intuisce che la serialità televisiva ha bisogno di essere completamente rivoluzionata. Sia negli anni ’80, la serialità televisiva era arrivata a un momento di stanchezza, Lynch riesce a convincere miracolosamente la Abc a fare, a produrre questa incredibile serie completamente, a sua volta, lontana da qualsiasi cliché e che viene riempita di errore, di paura, di inquietudine, ma allo stesso tempo anche di cose bellissime. L’agente Cooper è un protagonista di assoluta trasparenza e una forza del bene a tutti i livelli, che combatte contro il demone Bob che vuole invece aggredire. Ecco il lato oscuro, il lato nero della vita, lo Yin e lo Yang, entrano chiaramente in “Twin peaks”, frutto anche della meditazione trascendentale che Lynch faceva sempre e che vengono trasformati in un racconto seriale e che, da una parte, sembra una soap opera e dall’altra invece sembra un horror. In una coincidenza di opposti che conquista l’interesse di tutti, anche perché, come dicevi tu, i personaggi sono uno più bizzarro dell’altro, ma anche uno più umano dell’altro, perché c’è anche una forte umanità dentro “Twin peaks”. É interessante questo sperimentalismo che Lynch si porta dietro, qualsiasi cosa faccia, anche delle serie per il pubblico di massa, e anche il piacere che lui ha di scompigliare le cose. Perché se “Twin peaks” in tv aveva portato milioni di spettatori a incontrare Lynch, cosa che non era mai successa, magari con i film più difficili, lui nel ‘92 si mette a fare una specie di prequel di “Twin peaks”, ma per il cinema. Ha un titolo che diventa famosissimo. “Fuoco cammina con me” si chiama questo film, nel quale tutto quello che poteva essere per un grande pubblico diventa assolutamente sperimentale, avanguardista. Un film che delude le attese di chi vorrebbe vedere una “Twin peaks 3” impacchettato per la sala, e diventa invece una sorta di auto meditazione sperimentale su “Twin peaks”, in uno dei film più oscuri e davvero ermetici di Lynch, come a dire, non mi interessa il successo, l’integrità artistica viene prima di tutto.

A questo proposito, ricordiamo anche un altro attore amato e presente in molti dei suoi lavori, Kyle MacLachlan, che proprio in questi giorni ha manifestato grande dolore per la perdita di questo regista che sicuramente ha cambiato la sua vita professionale e artistica.

Sì, anche perché ricordiamoci che McLachlan è anche l’ultimo attore di Lynch. Perché Lynch ci ha lasciati non con il lungometraggio “Inland Empire” del 2006, ma proprio con “Twin peaks 3” nel 2017. Serie, a sua volta, assolutamente ermetica e tutta da riscoprire dove c’era Kyle MacLachlan, per un’ultima volta, nel 2017.

Andiamo verso la fine degli anni ‘90 con “Strade perdute”, “Una storia vera”, fino a “Mulholland Drive” che probabilmente, a livello di Box Office, è uno dei più grandi successi di David Lynch, del 2001.

Questa a mio parere è una specie di trilogia. Nel senso che se noi guardiamo il primo e l’ultimo film, cioè “Strade perdute”e “Mulholland Drive”, 1997 e 2001, troviamo due film che si specchiano, cioè entrambi i film sono chiaramente divisi in due parti. In “Strade perdute” c’è una prima parte che racconta una storia e un secondo tempo in cui succede tutt’altro, in cui quello che crediamo essere una storia diventa un’altra. Il personaggio cambia addirittura corpo e poi dobbiamo cercare di mettere insieme questi due fattori in un nastro che non torna mai a se stesso. È una specie di Nastro di Möbius. Ecco, in “Mulholland Drive” accade la stessa cosa, cioè due parti, due momenti della storia che non coincidono. Ogni volta lo spettatore deve chiedersi: “Ma che cosa è successo? Che cosa è accaduto? Qual è la chiave narrativa di tutto questo? Qual è il momento del film nel quale un personaggio ha cominciato a sognare, probabilmente. E vediamo quindi la parte onirica e non reale?”. Sono dei cubi di Rubik narrativi questi due film, entrambi legati al noir, come genere, ed entrambi legati alle pulsioni più ancestrali, angoscianti della vita. In mezzo c’è una storia vera, che ancora una volta è una strada: “Strade perdute”, “Mulholland Drive” eccetera.
Ecco, questa è la “Straight story”, quindi una storia dritta, “Una storia vera” che invece è uno dei film più limpidi, senza orrore, familiari, di buoni sentimenti che Lynch abbia mai fatto. La storia di questo anziano signore che vuole andare a recuperare l’altrettanto anziano fratello che sta dall’altra parte d’America con cui ha litigato tanti anni prima e lo fa su un trattore andando ai dieci all’ora e nella sua lentezza incontra tantissimi altri personaggi dell’America profonda. E’ uno dei film veramente più affettuosi di Lynch, che è quasi irriconoscibile se non si riconoscesse invece il paesaggio americano che è il road movie che ha usato tante volte. Questa strada dritta è una specie di versione solare delle strade nere, dark, di “Strade perdute”, “Mulholland Drive”. E tutte insieme indicano una trilogia in cui ancora una volta luce e oscurità si abbracciano.

Qual è l’eredità, la cosiddetta legacy, di un personaggio come David Lynch nel cinema, nella storia del cinema?

Eredità difficilissima. Perché come i grandi non si può davvero oggi essere un regista lynchiano, essere davvero un regista kubrickiano, essere davvero un regista felliniano, perché si rischia in qualche modo di fare un patatrac. Quindi, un conto è farsi, come dire, influenzare positivamente da questa integrità artistica su cui tanto ha insistito. Un conto è imitare le forme, cosa che diventa un po’ difficile di fronte a David Lynch. Io credo che una lezione che arriva da Lynch è questa, perché adesso noi elogiamo giustamente tanti registi che fanno loro la storia del cinema, la citano, fanno i citazionisti postmoderni e così via. Però Lynch in verità veniva dall’arte. Lynch amava il cinema, tra l’altro amava anche Fellini, ma non in maniera enciclopedica. Non gli interessava tanto fare le citazioni o strizzare l’occhio. Lui diceva “Io voglio le mie visioni, le mie visioni possono venire dall’arte, possono venire da un suono che ho sentito una mattina, possono venire dalla musica, possono venire dalla fotografia”. Quindi era la libertà compositiva, non aveva a che fare con il secondo grado, con il citare qualcun altro e credo che tutto sommato questa sia la lezione principale: trovare il proprio sguardo e trovare la propria voce invece di imitare Lynch, che è quasi impossibile.

Veniamo al tuo David Lynch. Qual è la scena che in un qualche modo, per te, è David Lynch? Quella che rappresenta questo grande maestro per te?

Una scena super specifica, in questo caso, che portai anche una volta a un incontro con dei colleghi perché è una scena che forse non è, come dire, essenziale per la narrazione dei film di Lynch, ma è una scena indicativa della libertà. Ci sono Sailor e Lula in “Cuore selvaggio” che stanno andando in automobile in giro per l’America, inseguiti dai killer, e vivono questa vita sopra le righe. A un certo punto sono in automobile e stanno usando l’autoradio per capire qual è la musica più bella da ascoltare e incappano in un pezzo heavy metal. All’improvviso allora inchiodano, c’è un’enorme campo d’erba, si buttano nel campo d’erba e cominciano a ballare follemente su questa musica heavy metal e Nicolas Cage, in particolare, comincia a fare delle assurde mosse di karate, dando dei calci all’aria.
Questo è un momento talmente energico ed energetico che, secondo me, è il Lynch che non teme niente, che ci vuole trascinare dentro lo schermo.

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