Daniele Silvestri, per un certo periodo della sua carriera almeno, si è spesso fatto attendere. I suoi dischi sono arrivati dopo attese a volte anche lunghe da parte di chi lo segue con affetto e interesse come è capitato di fare anche a noi. Non si può dire che in quest’ultimo periodo invece si sia risparmiato: prima la lunga ed entusiasmante esperienza con gli amici Max Gazzè e Niccolò Fabi, con il disco e poi un lungo tour. E non molto tempo dopo ecco Acrobati. Praticamente un album doppio, pieno di musica, di parole, di storie, di canzoni.
Un disco davvero bello e completo, anche capace di mostrare, a più di vent’anni dall’inizio della sua carriera, nuovi approcci alla scrittura, alla narrazione, all’interpretazione. Lo abbiamo accolto come sempre con grande piacere nei nostri studi. E abbiamo iniziato a parlare con lui proprio di questo momento così intenso creativamente per lui.
“E’ stato un periodo decisamente creativo anche dal mio punto di vista, sono stato il primo a sorprendermene, almeno per quanto riguarda la quantità. Sulla qualità lascio che siano altri a esprimersi… La mia sensazione è che questi sforzi siano stati giustificati anche dai risultati. E ti dirò che a un certo punto ho dovuto impormi di fermarmi, altrimenti sarei andato ancora avanti e mi sarei ritrovato con un disco triplo o quadruplo. I semi gettati sono stati tantissimi, come forse non mi è mai successo, nemmeno quando avevo 25 anni. Non credo nemmeno che saprei spiegarti perché è successo, so solo che ne sono abbastanza felice!”
Mi sono sempre fatto l’idea, forse anche in base a delle cose che hai raccontato tu stesso, che tu in studio sia uno che non si dà mai pace, un meticoloso, se non maniacale. E che dietro i tuoi dischi ci fosse anche un po’ di fatica, per quanto poi questi album, ad ascoltarli, suonassero sempre leggeri, come nati in un solo pomeriggio di ispirazione. E’ così?
Intanto ti ringrazio del complimento. E poi…sì, non è una cosa che ti sei inventato tu. Faccio così, sono a volte anche troppo meticoloso, se ho la sensazione che quello che sto facendo non arriverà al risultato desiderato, sono dispostissimo a buttare via tutto e ricominciare daccapo. Quando non a buttare via e basta. A volte lo faccio anche in condizioni estreme, ed è successo anche questa volta: il singolo che ha preceduto il disco, “Quali alibi”, in realtà era stato approvato da tutti, me compreso, e scelto come singolo, in una versione completamente diversa. Che ho rifatto completamente quando mancava solo una settimana all’uscita del pezzo in radio, al buio praticamente. Ho chiamato di nuovo tutti i musicisti, abbiamo registrato tutti insieme live, con un’altra tonalità, cambiando la struttura e il testo, ricominciando proprio da zero. Una follia, certamente, ma per fortuna che l’ho fatta! Oggi quando risento le due versioni, una sembra solo il provino dell’altra. Ma è solo un esempio, perché purtroppo questo è in effetti il mio modo. E’ anche vero che però in questo disco ho preparato il terreno in maniera diversa rispetto al passato, quando i miei dischi nascevano principalmente da un lavoro precedente, casalingo e solitario. Questa volta ho voluto che anche nella preparazione ci fossero tutti gli strumenti e i musicisti insieme, uno di fronte all’altro, perché le libertà creative di ognuna delle persone coinvolte nelle varie canzoni fossero presenti alla massima potenza e in grado di esprimersi al meglio. Quella libertà, poi, è ciò che permette di avere quella sensazione meravigliosa, quando una cosa nasce da zero e può andare ovunque, e dove va nessuno lo ha stabilito prima, lo stabilisce quel pathos che si crea. Questo disco è fatto molto di tutto questo.
Forse anche per questo c’è questa idea, fin dal titolo, dell’Acrobata, che si libra e guarda dall’alto?
Sì, ma è soprattutto la libertà della scelta, più che del gesto. Il gesto dell’acrobata è in qualche modo una ribellione, se consideriamo la gravità una regola, una legge. Ma il vero atto di libertà è la scelta di volerlo fare, più che il gesto. Che è un gesto artistico, anche fine a se stesso se parliamo di funamboli, non c’è uno scopo vero se non dell’anima. Ma alla base c’è una voglia e un bisogno di libertà che volevo che attraversasse il disco, questo è il senso di acrobazia che desideravo e intendevo.
Hai parlato di “Quali alibi”, il singolo che ha presentato il disco, e di come sia stato rifatto all’ultimo momento. Credo che questa canzone sia anche un ponte ideale tra un certo tuo modo di scrivere, di parlare di temi politici, che ti ha sempre caratterizzato, e uno stile per molte cose nuovo che invece ascoltiamo nel disco…
Sì, perché, forse riassumendo il tutto in maniera ancora più netta, per la prima volta in questo disco ci sono delle canzoni in cui sono meno riconoscibile, canzoni che prese da sole…uno potrebbe chiedersi chi stia cantando. E questo credo che non succedesse quasi mai prima: anche se ho sempre fatto tante cose in tanti stili diversi, il mio modo di scrivere, di usare il testo e la lingua, mi ha sempre resto piuttosto riconoscibile. Questa volta ho voluto provare a esplorare zone non solo musicali, ma proprio dell’anima, che non avevo mai toccato prima. Per cui mi sembrava la cosa migliore, per chi avesse avuto voglia di conoscere queste cose nuove che avevo messo nel disco, il trovare un modo per portarcelo. E in effetti il ponte migliore mi sembrava questa canzone.
Invece l’ingresso dell’ascoltatore nel disco avviene…da una porta di casa. “La mia casa” è una bellissima ballata, in cui forse per la prima volta nella tua carriera parli, io credo anche in modo molto intimo e personale, dell’idea di casa. E’ così?
Sì, è vero, non ne ho mai parlato. Anche in questa canzone lo faccio in una maniera un po’ traslata, perché ne identifico così tante di case… Poi arrivo anche a quella vera, quando parlo di Roma alla fine del pezzo, ma quasi perché mi sembrava fondamentale che ci fosse un termine di paragone con l’obiettiva realtà di un indirizzo che è anche un domicilio fiscale. Però la canzone parla di altro, anche se in un modo decisamente intimo e personale. Perché le descrizioni che faccio, in alcuni casi di poche parole, in altri un po’ più approfondite, dei luoghi che tocco sono molto personali, ho scelto parole che davvero per me sono evocative di quei posti. Quello di cui però volevo parlare era quella sensazione che credo ci riguarda tutti, anche chi magari non è mai stato in nessuno dei posti di cui parlo, e che ci rende possibile di sentirci a casa pressoché ovunque. E’ un modo per pensare il mondo come un’unica casa, con tante stanze tutte meravigliosamente diverse da andare ad abitare a seconda del momento della vita che si sta attraversando.
Abbiamo parlato di tutto questo e di molto altro con Daniele Silvestri: per ascoltare l’intera conversazione, cliccate qui sotto! (27 minuti)