È un caso unico nel continente: mentre altre manifestazioni dedicate all’arte contemporanea – come la Biennale di Johannesburg e la Triennale di Luanda – sono durate lo spazio di un mattino, e altre ancora sono new entry più recenti, per lo più sporadiche e in ogni caso di rilievo più ridotto, Dak’Art – la cui tredicesima edizione, apertasi il 3 maggio, si è chiusa il 2 giugno – è la sola Biennale africana di arte contemporanea ad aver raggiunto una ragguardevole continuità e ad essersi affermata come un riferimento consolidato (l’unica Biennale africana che in questo senso regge il confronto con Dak’Art è quella di Bamako, che però è consacrata alla fotografia).
Dopo qualche incertezza negli anni novanta, nel nuovo millennio la Biennale della capitale senegalese è tornata puntualmente ogni due anni – anche in fasi non facili della vita del paese – e con la sua presenza regolare ha beneficiato della crescita di interesse per l’arte contemporanea africana, interesse che però in Africa ha continuato a trovare come Biennale di livello internazionale a cui rivolgersi solo Dak’Art.
Negli ultimi anni Dak’Art ha reso più esplicita l’aspirazione a superare il suo ruolo di manifestazione indirizzata ad un pubblico e ad una cerchia di addetti ai lavori molto specializzati e a diventare invece un appuntamento non marginale all’interno del circuito globale delle Biennali, uno status che come si sa è ricco di importanti ricadute materiali e simboliche: deve esserne consapevole il presidente della repubblica Macky Sall, che nel corso della cerimonia inaugurale ha annunciato l’intenzione di raddoppiare il budget destinato a Dak’Art.
Un passo importante nella direzione della crescita della Biennale di Dakar è stato fatto affidando la direzione artistica dell’edizione 2016 – incarico poi rinnovato per l’edizione 2018 – a Simon Njami, critico e curatore di origine camerunese ampiamente affermato sul piano internazionale (Njami è stato fra l’altro uno dei fondatori della parigina Revue Noire, che negli anni novanta ha avuto grande importanza nel lanciare l’arte contemporanea africana).
Gli effetti del risalto internazionale guadagnato da Dak’Art sono stati piuttosto evidenti, nei primi giorni della manifestazione, nella quantità e nel tipo di frequentatori dei vernissage delle esposizioni ufficiali e delle più significative fra le tantissime mostre della parte ‘”Off” sparse nella città – oltre duecento, senza contare quelle nella banlieue, a Saint-Louis e in altre regioni – e sono stati avvertiti da alberghi e taxisti.
Non mancano però alcuni punti deboli.
L’affermazione internazionale di Dak’Art rende ancora più lampante il problema dell’assenza nella capitale senegalese di un museo consacrato all’arte contemporanea. Nel 2016 per l’esposizione internazionale (dedicata agli artisti africani e della diaspora) di Dak’Art era stato riaperto l’Ancien Palais de Justice, di cui all’epoca si era parlato come della possibile sede del museo: ma finora non se ne è fatto niente, tanto che la bella architettura dell’edificio ha potuto essere la cornice anche dell’esposizione internazionale di questa edizione 2018.
La questione dell’assenza di un museo di arte contemporanea si intreccia con quella dell’impossibilità a Dakar di vedere rappresentata in maniera permanente l’evoluzione e la ricchezza dell’arte senegalese moderna, e quella della conservazione e della fruibilità di patrimoni di opere di diversi artisti di rilievo. Per esempio in occasione di una retrospettiva a Dak’Art nel 2014 era stato rimpatriato dalla Francia un cospicuo numero di sculture di Moustapha Dimé, pioniere dell’arte contemporanea senegalese: ma al momento queste opere preziose non hanno ancora trovato una collocazione.
Da questo punto di vista è un fatto importante che alcuni notevoli esempi dell’arte di Ousmane Sow, scomparso nel 2016, siano finalmente esposti permanentemente a Dakar: proprio nella casa vicino al mare (a Yoff Virage) che il decano della scultura senegalese costruì e dove ha lavorato, casa che è stata ristrutturata e inaugurata come museo in occasione della Biennale.
Due altri gravi lutti che hanno colpito l’arte senegalese nel 2017 pongono il problema della conservazione e valorizzazione a Dakar delle opere di due importanti artisti. Allo scultore Ndary Lo, mancato prematuramente nel giugno dello scorso anno, è stata dedicata una retrospettiva nell’ambito dell’esposizione internazionale all’Ancien Palais de Justice.
A Joe Ouakam, veterano dell’avanguardia senegalese, scomparso nell’aprile 2017, ha dedicato performance e iniziative un gruppo di giovani che si richiamano alla indimenticata esperienza di Agit-Art, di cui il pittore, assieme al regista Djibril Diop Mambety, è stato l’animatore a partire dai primi anni settanta.
Un altro elemento di debolezza è relativo alla vocazione della parte ufficiale di Dak’Art. Le due esposizioni principali, quella internazionale e quella, ospitata al Musée de l’Ifan, affidata a cinque commissari di diverse nazionalità (Svezia, Hong Kong, Camerun, Messico, Marocco), sono apparse meno brillanti delle corrispondenti esposizioni del 2016, ma soprattutto hanno dato ancora di più l’idea che le scelte risentano in maniera eccessiva del condizionamento dei trend e del mercato dell’arte contemporanea, a scapito di una più ravvicinata, minuta e libera perlustrazione del tessuto di creatività del continente, nella quale Dak’Art potrebbe e dovrebbe radicare il proprio senso (di uno dei lavori che ci hanno maggiormente interessato nell’esposizione internazionale, l’installazione dell’artista algerina Amina Zoubir, adesso presentata all’interno della mostra La sfinge nera alla Marella Gallery a Milano, ci occuperemo a parte in un prossimo post).
All’Ifan spiccava la sezione curata da Bonaventure Soh Bejeng Ndikung su Halim El-Dabh, compositore egiziano (1921-2017), pioniere della musica concreta (in anticipo di Pierre Shaeffer), con un assortimento di interviste in video, documenti, installazioni e lavori di musicisti con rivisitazioni/omaggi sulla sua opera.
Nelle prossime edizioni occorrerà poi un maggiore controllo della qualità delle altre proposte della parte ufficiale di Dak’Art. Di fronte al Grand Théâtre National, all’interno di una tensostruttura, sono stati allestiti tre padiglioni nazionali, dedicati al Senegal e a due paesi “ospiti d’onore”, Ruanda e Tunisia. Purtroppo il padiglione del Ruanda si presentava come poco più che uno stand di promozione turistica; mentre quello del Senegal era arraffazzonato in maniera piuttosto indecorosa per un paese che può vantare una storia e degli artisti di tutto rilievo e che per di più giocava in casa: ci ha colpito però – collocata all’ingresso – la scultura/installazione intitolata Tirailleurs (le truppe coloniali dell’Africa occidentale che hanno combattuto per la Francia nella prima e seconda guera mondiale) di Yakhya Ba, un giovane scultore che ha il suo atelier a Dakar e che è ispirato da maestri come Ousmane Sow e Ndary Lo ma che intende distinguersene innanzitutto nell’uso del materiale, il pvc.
Ottima figura invece quella della Tunisia, con una interessante selezione di artisti, un allestimento ben curato, corredato anche da un funzionale pieghevole/catalogo.
Per chi non è già in confidenza con la città e con la Biennale, la grande quantità di esposizioni e iniziative della parte Off può creare qualche difficoltà ad orientarsi, sia nella città (ma da diverse edizioni Dak’Art mette a disposizione una dettagliata guida cartacea all’Off, con cartine che aiutano a localizzare le mostre nella varie parti della città), sia tra proposte di qualità molto diversa.
Intelligente l’iniziativa di proporre, con vernissage cadenzati nel corso del pomeriggio di uno dei primi giorni della manifestazione, un percorso fra esposizioni nella zona di Almadies (che culmina fra l’altro nella punta più occidentale del continente), alcune fra l’altro delle più stimolanti di tutto l’Off.
Alla Villa Ciring Cissé è stata presentata una personale di Soly Cissé, una delle figure di punta dell’arte senegalese di oggi.
Benché Cissé sia un artista molto prolifico, la sua produzione è sempre di alto livello, e tale è rimasta anche in questi ultimi anni, in cui Cissé ha dovuto sormontare le drammatiche conseguenze di una malattia: lo si era visto dalla qualità dei nuovi lavori presentati alla sua personale a Dak’Art nel 2016, mentre Cissé era a Parigi in riabilitazione, ma aveva continuato a lavorare. Questa volta si è avuto il piacere di vedere non solo le sue tele ma anche Soly, e di vederlo in piedi non solo artisticamente ma anche, di nuovo, fisicamente.
Cissé ha anche creato una installazione all’isola di Gorée, Champ de Coton, una riflessione (in metallo e batuffoli) sulla schiavitù non lontano dalla porta del viaggio senza ritorno della Maison des esclaves.
All’Atlier Céramiques Almadies di Mauro Petroni, artista italiano che vive a Dakar da decenni, e che dal 2002 coordina la parte Off della manifestazione, è stata proposta una collettiva della Fondation Blachère (specializzata in arte africana contemporanea, con sede a Apt, a nord di Marsiglia): tra i diversi meriti della Fondation Blachère c’è quello di sostenere un artista straordinario ma non valorizzato quanto meriterebbe come il camerunese Joseph Sumegné, di cui in mostra si potevano vedere una massiccia, affascinante scultura realizzata con un certosino lavoro di assemblaggio di materiale di recupero, e diverse delle sue maschere.
Per la terza edizione consecutiva, facendosi carico personalmente dello sforzo organizzativo e di ricerca degli sponsor, Bill Kouélany, una artista che vive e lavora a Brazzaville, dove nel 2012 per formare giovani artisti ha dato vita agli Ateliers Sahm, ha portato una collettiva dei giovani che sostiene, riuscendo a far venire a Dakar non solo le opere ma anche diversi degli artisti: Bill Kouélany ritiene che viaggiare (magari per la prima volta) ed esporre in una Biennale coma Dak’Art, confrontarsi con altri artisti ed altre opere sia un’esperienza essenziale per la loro formazione.
Come nel 2014 e 2016 ha presentato artisti del suo paese, la Repubblica del Congo, e di un altro paese, in questo caso il Mali.
Fra i congolesi, Van Andrea ha come tema nei suoi spray/collage/acrilici su tela il condizionamento esercitato dai social network, per esempio nelle relazioni sentimentali; Jody Kissy Moussa assembla e ritaglia radiografie e pellicole di film. Qui un lavoro di Jody Kissy Moussa:
Ogni anno Bill Kouélany organizza a Brazzaville un festival a cui partecipano decine di giovani artisti della Repubblica del Congo e di diversi altri paesi del continente: la prossima edizione si terrà del 3 al 23 settembre.
Di grande qualità la serie di otto mostre – con cui si concludeva il percorso di inaugurazioni ad Almadies – presentata con notevole professionalità sotto l’intestazione theMatter in un edificio ancora in fase di rifinitura dal costruttore monegasco, e attivo a Dakar, Thomas Cazenave, appassionato di arte africana contemporanea, che ha organizzato il tutto a proprie spese, senza ricorrere a sponsor. E’ una proposta che merita un discorso a parte: ci torneremo, con un’intervista a Cazenave.
Alla Résidence Charles, che pure si trova ad Almadies, è stata presentato un pregevole florilegio di arte moderna senegalese dalla collezione del Café des Arts, che fu un luogo di incontro di artisti: l’intenzione è di presentare periodicamente sempre nella stessa sede, via via diversi aspetti della collezione, e di lavorare ad una – quanto mai opportuna, in attesa che anche un museo se ne faccia carico – messa prospettiva dell’evoluzione dell’arte senegalese.
Fra tante cose viste ancora una segnalazione: l’esposizione presentata in una sede di Nouvelles Frontières dal Centre Culturel Kôré/Fondation Festival sur le Niger di Ségou (Mali): fra le opere in mostra i quadri di Mohamed Diabagaté, figure realizzate a collage, con piccole strisce di tela, con delicati e poetici effetti cromatici.