“Sono accanto a chi denuncia le violenze contro le persone di colore e il razzismo radicato nel nostro Paese. Ne abbiamo avuto abbastanza”. Comincia così la breve dichiarazione diffusa via social da Michael Jordan, e chi ha visto la serie The Last Dance, sa quanto sia eccezionale: il campione dei Chicago Bulls, senza dubbio uno degli sportivi più forti di sempre e uno degli afroamericani più celebri negli Stati Uniti e nel mondo, non si era mai esposto politicamente prima, nemmeno quando, all’apice della popolarità, avrebbe potuto aiutare un candidato democratico nero a strappare a un veterano repubblicano esplicitamente razzista la carica a governatore del North Carolina, il suo stato natale.
“Anche i repubblicani comprano scarpe da ginnastica” fu la dichiarazione che venne attribuita allora al giocatore, anche se lui oggi smentisce proprio nella sopracitata The Last Dance, una miniserie documentaria prodotta dal canale sportivo americano ESPN e distribuita internazionalmente da Netflix, due puntate a settimana, per tutto maggio. È stata un successo incredibile, una delle serie più viste di sempre sulla piattaforma, complice sicuramente anche la scarsità di contenuti sportivi disponibili in questi mesi di stop causa virus.
The Last Dance racconta la stagione NBA 1997-1998, l’ultima per Jordan e per l’imbattibile formazione dei Chicago Bulls formata, tra gli altri, anche dai fortissimi Scottie Pippen, Dennis Rodman e Steve Kerr; il racconto di quel campionato è una cornice che permette continui salti indietro nel tempo, a ripercorrere tutta la carriera di Jordan (e, in misura minore, degli altri), e a resuscitare vividamente la cultura e lo spirito di anni 90 che oggi sembrano lontanissimi. The Last Dance è di grande intrattenimento e ha il grande merito di saper coinvolgere, oltre agli appassionati, anche chi non ha alcun interesse nel basket o, più in generale, nello sport: le gesta di Jordan & compagni sono raccontate come farebbe un’antica leggenda e, contemporaneamente, una serie piena d’intrighi tipo Il trono di spade. Ma, inevitabilmente, finisce per sfiorare l’agiografia di Jordan e, significativamente, la questione razziale non viene toccata quasi mai – nemmeno per ricordare come la potente industria sportiva americana sia un ennesimo territorio in cui uomini bianchi, ricchi e potenti, sfruttano i corpi delle persone nere, argomento di cui parla High Flying Bird, uno degli ultimi film di Steven Soderbergh, anche questo distribuito da Netflix.
Qualche anno fa, sempre ESPN realizzò una miniserie sportiva molto più rivoluzionaria, purtroppo mai distribuita in Italia (ma online trovate il dvd): OJ.: Made in America, che ripercorrendo la parabola di O.J. Simpson, dagli esordi al caso giudiziario fino a oggi, si preoccupava di inquadrare nel contesto sociale statunitense la figura di una star sportiva che prima dichiarava con strafottenza “io non sono nero, sono OJ” e per cui poi l’appartenenza etnica giocò un ruolo cruciale nel processo e nell’immaginario collettivo.
Del caso OJ Simpson si occupa anche la prima stagione di American Crime Story, su Netflix, e – sempre su Netflix – trovate l’interessantissimo (e in questi giorni imprescindibile) documentario LA 92, sulle rivolte di Los Angeles del 1992. Sulla piattaforma streaming, poi, un’altra miniserie assolutamente da vedere, per capire le proteste di questi giorni: When They See Us della regista afroamericana Ava DuVernay, sulla storia dei cinque ragazzini neri ingiustamente condannati per lo stupro di una donna bianca a Central Park, da guardare in coppia col doc XIII Emendamento, della stessa regista, sulla situazione delle carceri americane. Solo alcuni consigli di visione per comprendere come si è arrivati alle proteste di oggi, e perché, senza giustizia, non può esserci pace.