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Cuba “por cuenta propia”

Tornando nel febbraio scorso a Cuba dopo sei anni di assenza, avevo in mente un articolo uscito sul manifesto dello scrittore cubano Leonardo Padura Fuentes che mi era rimasto impresso e che avevo conservato; pubblicato nel 2011, a ridosso del sesto congresso del Partito Comunista di Cuba che avrebbe sancito le riforme promosse da Raul Castro (su cui il settimo, celebrato nell’aprile di quest’anno, ha continuato a puntare), e intitolato dal manifesto “Come cambia l’Avana”, cominciava così: “L’Avana sta rinascendo. Non potrei garantire se nella migliore maniera, però la rinascita è evidente. Appena ufficializzate le prime misure di ‘attualizzazione del modello economico cubano’ (…), gli effetti della nuova politica hanno cominciato a variare, in modo accelerato, la fisionomia fisica di una città che, negli ultimi cinquant’anni, sembra essersi fermata nel tempo (e anzi andata indietro con l’avanzamento del deterioramento)”.

Poi Padura Fuentes descriveva il proliferare di attività in proprio (la dizione cubana è por cuenta propia, e la sigla per indicare i lavoratori in proprio TCP) di ristorazione e piccolo commercio, nate, raccontava lo scrittore, “ad ogni angolo, negli androni, in posti un po’ rozzi, (che) quasi sempre aprono i battenti senza la minima ricercatezza (…) offrendo un’immagine di provvisorietà e povertà dolorosa”. E Padura Fuentes chiudeva così il suo articolo: “(…) queste piccole attività, senza che esistano troppe regolazioni architettoniche e urbanistiche che le controllino, stanno dando alla capitale cubana una immagine di fiera senza limiti né ordine, di città in cui l’aspetto rurale si mescola con quello urbano – Padura Fuentes si riferiva alla vendita per strada di prodotti agricoli – la novità con l’improvvisazione e in cui la bruttezza e la sensazione di povertà si convertono nel suo timbro più caratteristico. Insomma l’Avana cambia perché doveva cambiare… e uno dei prezzi che paga è quello della sua già abbastanza deteriorata bellezza”.

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Mancavo da Cuba dai primi mesi del 2010, quindi giusto da un anno prima dell’articolo di Padura Fuentes, e non posso escludere che nel momento fotografato dallo scrittore, appena introdotte le novità in materia di apertura al lavoro in proprio, possa esserci stata una esplosione di iniziative private e che il fenomeno si sia poi assestato. Ma in ogni caso con in mente quella descrizione dell’Avana di Padura Fuentes una volta arrivato nella capitale cubana confesso di essermi detto: beh, tutto qui? E d’altro canto non ho trovato nelle attività private un senso di “povertà dolorosa”, ma piuttosto di vitalità. Doloroso mi è parso invece per esempio lo spettacolo di tante persone anziane che per racimolare un po’ di denaro vendono per strada dei patetici cartoccini di noccioline: per raccontare quel dolore ci vorrebbe un De Sica di Umberto D.

Certo, ci vuole ben altro che il lavoro in proprio per alterare significativamente l’esteriorità dell’Avana: che continua ad essere una città di bellezza impagabile, malgrado il drammatico deterioramento – a cui accennava anche Padura Fuentes – del patrimonio edilizio nelle grandi aree popolari come Habana Vieja, Centro Habana, Marianao, eccetera. Non avendo nessuna passione per la decadenza e non trovando pittoresco il decrepito, è semmai questo che mi ha fatto problema tornando all’Avana dopo sei anni: vedere che – se si eccettua il recupero e la valorizzazione delle parti per esempio dell’Habana Vieja in cui si muovono i grossi flussi turistici – non si notano sostanziali inversioni di tendenza, anzi, rispetto al degrado di una grande massa di edifici, per lo più abitazioni di strati popolari: a differenza della sanità e dell’istruzione, le condizioni abitative non sono fra i trionfi del socialismo cubano.

Ma proprio il fatto di ritrovare un’Avana certo con segni di maggiore dinamismo e vivacità dati dalle nuove attività, ma in definitiva non così diversa da come l’avevo lasciata mi restituiva al colpo d’occhio la misura della decisa insufficienza dell’apertura al lavoro in proprio rispetto alla necessità di affrontare i problemi dell’economia cubana. Certo l’introduzione del lavoro in proprio ha consentito allo stato cubano di sgravarsi di centinaia di migliaia di salariati in eccesso, e ha anche la funzione “pedagogica” di spingere i cubani ad emanciparsi da una condizione di “dipendenti” – non certo solo in termini salariali – dallo stato. Ma vedere squadernato nella città l’assortimento delle nuove possibilità di lavoro mi dava la percezione immediata del profilo oggettivamente basso, per quanto senz’altro positivo, di questa innovazione: affitto di case private, ristorazione e piccolo commercio non sono attività adeguate a mettere in valore proprio quell’alto livello di formazione della popolazione di cui la Rivoluzione può andare orgogliosa: parafrasando una famosa – e di gusto non impeccabile – battuta di Fidel Castro sulle prostitute cubane, si potrebbe dire che Cuba può vantare gli affittacamere, i ristoratori, i baristi e i piccoli negozianti più istruiti del mondo.

E dopo diversi anni dall’apertura al lavoro in proprio, dall’ambito del lavoro por cuenta propia continuano a rimanere escluse attività professionali più elevate. Ma anche se si facessero dei passi avanti in questo senso, comunque il lavoro in proprio non può essere il toccasana dei problemi dell’economia cubana.

Con la comitiva di ascoltatori di Radio Popolare andiamo a visitare una fabbrica di sigari. La fabbrica è all’angolo di Calle San Carlos con Calle Penalver, a Centro Habana. L’edificio, bianco, elegante, con colonne e frontone neoclassici a incorniciare l’ingresso, risale al 1902 e ha qualcosa che mi fa pensare a Manhattan.

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Qui in anni recenti è stata spostata una storica produzione di sigari, quella della Fábrica Partagás che aveva sede in un edificio vicino che adesso funziona invece da museo e da “tienda”, da negozio che vende sigari. Sopra la porta del palazzo si legge il nome Pollack: un commerciante di tabacco che prima della Rivoluzione qui aveva il suo deposito e anche la sua abitazione. La Fábrica Partagás è la seconda fabbrica di sigari cubani per produttività. Ci guida nella visita un cicerone molto bravo. L’edificio ha diversi piani: entrando si accede ad uno spazio centrale intorno al quale corrono due ordini di ballatoi, come in una specie di casa di ringhiera raccolta intorno ad un cortile, ma con sopra un tetto. Dalle finestre che danno su uno di questi ballatoi ci si può affacciare sulle due grandi sale interne che stanno per il lungo sui lati e osservare il lavoro.

 

In una delle due sale si svolge la produzione dei sigari, nell’altra ci sono gli apprendisti. Nella prima si possono vedere le varie fasi della lavorazione, la torcitura del tabacco che costituisce la “polpa” del sigaro, la pressatura dentro apposite forme dell’abbozzo di sigaro, l’avvolgimento di quello che ne esce in una ampia foglia, la sistemazione con un pezzo di foglia di una sorta di cappuccio per fare l’imboccatura (ci si perdoni il linguaggio poco tecnico). Gli operai sono prevalentemente neri e mulatti, e prevalentemente donne.

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Nelle fabbriche di sigari c’era la tradizione di qualcuno che leggeva libri e giornali per intrattenere e allo stesso tempo istruire gli operai mentre lavoravano. Alla Partagás nella ampia sala dove si svolge la lavorazione ma anche in quella degli apprendisti (e persino nella sala mensa) va invece musica a un livello piuttosto assordante. Fra musica da ballo e canzoni sentimentali a tutto volume, colpisce in particolare in alcune lavoratrici la velocità straordinaria nello svolgimento delle operazioni; sono privilegiate le donne perché si tratta di un lavoro dove conta molto l’agilità e la sensibilità delle dita, un certo “tatto” femminile nella manipolazione del prodotto. Una malattia professionale è rappresentata dalle tendiniti, da cervicali, eccetera, per lo sforzo della torcitura; mediamente queste malattie si manifestano dopo venti/venticinque anni di lavoro, dopo di che gli operai vengono passati ad altre mansioni come inscatolamento, eccetera. Il cicerone minimizza la questione della nocività della nicotina assorbita attraverso le mani – si lavora senza guanti – ma le lavoratrici incinte vengono lasciate in maternità in anticipo rispetto ad altri lavori.

Gli operai guadagnano l’equivalente di circa 50/60 pesos convertibili al mese – cioè sulla cinquantina di euro – che per Cuba è decisamente un buon salario, più o meno quello di un medico, che oggi è l’attività professionale meglio retribuita, dopo che i salari nella sanità sono stati recentemente raddoppiati. Gli operai hanno anche diritto ogni giorno a quattro dei sigari prodotti dagli apprendisti. Poi c’è – questo naturalmente il cicerone non ce lo dice – il salario informale e gli introiti aggiuntivi: c’è la sottrazione di sigari, e c’è il lavoro di confezione di sigari fuori dalla fabbrica, che alimenta il mercato nero: lo stato lo sa benissimo ma non interviene. Perché? Perché gli operai producono un bene pregiato, che è fonte di notevoli entrate (i sigari costano molto, spesso moltissimo, basta andare a vedere i prezzi nella tienda nella vecchia sede della Partagás), dunque lo stato potrebbe compensare con salari più alti una “professionalità” che è a sua volta pregiata, in una certa misura togliendo a questi operai l’incentivo – diciamo così – a rubare e ad alimentare il mercato nero: ma lo stato non può pagare un torcitore più di un medico, intanto perché i salari non possono essere agganciati ai profitti che generano, che sarebbe un criterio non socialista, e poi perché sarebbe destabilizzante per gli equilibri sociali. Seguendo la visita ci si rende conto che da quei ballatoi della fabbrica di sigari si ha un ottimo angolo di visuale su molti nodi e complessità della società, dell’economia, del mondo del lavoro di Cuba: non ultimo su quello della produttività.

Gli operai sono circa trecento. Alla fabbrica si arriva sulla base di tradizione familiare: ci si presenta e si fa un test mostrando quello che si sa fare; se il test è superato si accede alla formazione: dalla formazione vengono presi un 25 per cento degli aspiranti. La lavorazione, torcitura, pressatura, avvolgimento eccetera, tutte operazioni che vengono svolte con grande rapidità ed efficienza, è qualcosa che sta a metà strada tra un lavoro di alto artigianato e una catena di montaggio fordista: ogni operaio svolge una sola operazione, non sapremmo dire se in maniera permanente o con una rotazione di mansioni. A valle di questa divisione del lavoro che porta al sigaro, c’è anche il controllo qualità del singolo pezzo: lunghezza, calibro, peso. Se il peso è eccessivo significa che il tabacco è troppo compresso, se è troppo scarso il tabacco è fiacco. Con una macchina viene fatta passare dell’aria attraverso il sigaro per verificare che il sigaro abbia delle caratteristiche ottimali: ogni singolo pezzo deve essere perfetto.

Esco dalla visita allo stesso tempo galvanizzato e irritato: affascinato dal carattere sofisticato, “scientifico”, serrato dell’organizzazione del lavoro e del processo produttivo; irritato pensando per contrasto a come il socialismo cubano, se è stato capace di rendere estremamente funzionanti sanità e istruzione, ma per esempio anche alcuni settori della ricerca, non è stato altrettanto capace di rendere produttivi, alla stregua di questa straordinaria produzione di sigari, altri settori, a cominciare dall’agricoltura, e soprattutto non è stato capace di “mettere al lavoro” un popolo, e sviluppare la capacità produttiva. Agendo invece da perequatore e distributore, in parte considerevole fra l’altro di beni non prodotti in loco.

Naturalmente sono chiare le condizioni storiche in cui questo è avvenuto, che però non sono sufficienti per un’assoluzione su quello che appare uno dei più gravi problemi che Cuba si è portata dietro fino ad oggi, e che può pesantemente condizionare il futuro di un’esperienza di ispirazione socialista.

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Oltre a rappresentare un modello non certo virtuoso per quanto riguardava la produttività, l’Urss, che nei decenni dell’appoggio a Cuba era da questo punto di vista già, e sempre di più, in declino, aveva evidentemente tutto l’interesse ad evitare un forte sviluppo produttivo di Cuba, per mantenerla in condizioni di dipendenza. Ma certamente chi ha determinato la fisionomia del socialismo cubano, cioè una dirigenza complessa e non certo riducibile ai soli Fidel e Raul Castro, non ha visto l’opportunità di utilizzare come minimo ogni margine disponibile e di convincere il popolo ad uno sforzo in questo senso, pur potendo approfittare di un consenso per la rivoluzione altissimo, e certo per parecchi anni anche entusiastico, di una dimensione economicamente e politicamente autocentrata, e del fatto che, dato l’appoggio appunto dell’Unione Sovietica, e lo sviluppo del welfare cubano, questo sforzo avrebbe potuto essere portato avanti senza terribili sacrifici, con praticamente gratis sanità, istruzione e da mangiare per tutti. E’ prevalso uno scambio tra consenso da un lato e assistenza statale e possibilità per molti di lavorare poco o niente dall’altro.

In un bilancio di quasi sessant’anni di esperienza rivoluzionaria, è secondo noi proprio quello della produttività e dello sviluppo delle forze produttive il maggior deficit del socialismo cubano, e non invece quello delle libertà individuali e politiche, la cui compressione è stata almeno in parte rilevante giustificata dall’esigenza di difendersi dal nemico americano.

Una volta rientrato da Cuba, mi colpisce trovare il mio stato d’animo all’uscita dalla visita alla Partagás rispecchiato da un passaggio di una intervista rilasciata dal teologo brasiliano Frei Betto a giornalisti di Prensa Latina in occasione di una conferenza all’Avana in gennaio, e ripresa anche da siti cubani, per esempio Cubaperiodistas. Accreditatissimo a Cuba, Frei Betto è un amico della Rivoluzione, e un amico personale dei Castro: suo il libro-dialogo con Fidel Fidel y la religion, degli anni ottanta, diffusissimo a Cuba, e dunque le sue parole sono significative. All’interno di una riflessione sulle difficoltà del fronte progressista in America latina, in testa le crisi in Brasile e Venezuela, dove secondo Betto si sono assicurati beni materiali ma trascurando una lotta sul terreno dell’ideologia, Betto dice che il governo rivoluzionario cubano, che ha invece fatto un lavoro di educazione politica del popolo, “è stato troppo paternalista. (…) La gente ha guardato alla rivoluzione come ad una grossa mucca che dà latte ad ogni bocca, ma con questo non si mobilita le gente ad un lavoro più efficace nel consolidamento ideologico legato, per esempio, con la produzione agricola e industriale. (…) La dipendenza dall’Unione Sovietica ha portato Cuba ad adagiarsi un po’, e oggi importa dal 60 al 70 per cento di prodotti di consumo e si è praticamente trasformata in un paese che per ricavare valuta esporta servizi medici, insegnanti e professionisti e importa turisti”.

Cuba continua per esempio ad importare l’80 per cento del suo fabbisogno alimentare: sostanzialmente la stessa percentuale del 2011, l’anno in cui le riforme volute da Raul – che alla bassa produttività dell’agricoltura ha dedicato un passaggio della sua relazione al congresso dello scorso aprile – furono sancite dal precedente congresso del partito: segno che gli ostacoli e le resistenze, anche all’interno del partito e dell’apparato, sono molto forti. Una nuova legge, annunciata a fine maggio e destinata ad essere approvata dal parlamento cubano nella sua prossima sessione in luglio, apre alle piccole e medie imprese private, un passo ulteriore, e significativo, rispetto alla legalizzazione del lavoro por cuenta propia: non se ne conoscono ancora i dettagli e bisognerà vedere se l’apertura riguarderà anche altri ambiti oltre a quelli già ammessi per il lavoro in proprio. Ma anche questa apertura non può risolvere il problema di fondo della produttività nel grosso dell’industria e dello sviluppo di settori produttivi avanzati, ad alto contenuto di ricerca e di innovazione, su cui l’impulso dello stato è indispensabile.

Non venendo presto a capo del problema, il rischio è che Cuba, malgrado l’altissimo livello di istruzione e formazione, si trovi a doversi inserire in modo subalterno nella globalizzazione, e che si condanni ad una nuova semi-monocultura, dopo quella dello zucchero: quella del turismo, diventando – ne abbiamo visti segni nella nostra visita – una sorta di luna park, un po’ come Venezia da noi.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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