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Tratto dal podcast
Memos di gio 02/04
Coronavirus | 2020-04-02
È sbagliato e fuorviante associare la pandemia di COVID-19 che stiamo vivendo a situazioni di guerra. Ne è convinto Paolo Setti Carraro, medico chirurgo che ha lavorato per tanti anni in un ospedale milanese e nel 2009 ha deciso di lasciare quel suo lavoro sicuro a Milano per trasferirsi in giro per il Mondo: dalla Sierra Leone allo Yemen, da Haiti all’Iraq. E poi Sud Sudan e Afghanistan.
Setti Carraro ha operato con Medici Senza Frontiere e con Emergency. In Sierra Leone, nel 2014, si è trovato di fronte al virus Ebola. Il suo racconto a Memos con Raffaele Liguori inizia dall’ultima delle sue esperienze, nella Striscia di Gaza, dove si trovava fino a pochi giorni fa.
Com’è la situazione a Gaza in questo momento?
Gaza è un po’ come l’Italia e l’Europa in questo momento. Le attività chirurgiche e mediche elettive sono tutte sospese. Gli sforzi della popolazione, del Ministero della Sanità e di tutte le strutture sanitarie sono concentrate nella lotta contro il COVID-19. A Gaza per il momento ci sono stati due casi di cittadini palestinesi rientrati attraverso il Valico di Rafah, al confine con l’Egitto, e venuti a contatto con un certo numero di guardie di frontiera. Sette di queste sono poi risultate positive. Tutti i positivi sono stati isolati in una struttura dedicata e in questo momento il focolaio sembra sotto controllo. Diverso, invece, quello che è accaduto nella West Bank, la Cisgiordania occupata, dove i casi sono ormai 130.
In una zona come la Striscia di Gaza è possibile mettere in atto la politica del distanziamento sociale?
Il distanziamento sociale è difficile da realizzare, ma è l’unica attività preventiva che funziona. Il 50% circa della popolazione di Gaza è ormai confinata a casa e possiamo dire che queste misure di stanziamento sociale sono ben accette perché c’è coscienza che questo sia il sistema migliore per contenere la diffusione del virus. La Striscia di Gaza è l’area del Mondo più densamente popolata: ci sono due milioni di persone in una striscia lunga 40 chilometri e larga dai 10 ai 12 chilometri. La densità abitativa è di 5mila persone per chilometro quadrato, quindi una situazione ad altissimo rischio di esplosione. A questo si aggiunge il fatto che le strutture sanitarie di Gaza, dopo 13 anni di embargo israeliano, non hanno le capacità tecniche e le competenze per poter affrontare, come nel resto del Mondo, l’eventuale esplosione di una pandemia.
Quella di Gaza è la sua ultimissima esperienza. Nel 2014 si trovava in Sierra Leone ai tempi del virus Ebola. Cosa ha significato per lei e per il suo lavoro trovarsi in quella circostanza?
L’origine di quell’epidemia di Ebola avvenne in Guinea alla vigilia di Natale del 2013. Da lì l’epidemia si è diffusa nel resto della Guinea, in Liberia e nella parte orientale della Sierra Leone con il picco dei contagio verso aprile 2014. Tra quell’aprile e i mesi di settembre ed ottobre 2014 lo sviluppo di queste misure precauzionali e di distanziamento sociale, ma anche l’identificazione e l’isolamento dei contatti e la costruzione di strutture di isolamento e di trattamento dei pazienti sembravamo aver messo un freno all’epidemia. Tra l’ottobre e il novembre del 2014, visto il calo dei contagi, le maglie si sono un po’ allentate e la gente ha iniziato a spostarsi dalle province orientali verso la capitale e c’è stata la seconda ondata di contagi che ha investito Freetown e lì Emergency ha risposto con l’apertura di centri medici e di isolamento intorno alla Capitale. Il secondo picco è stato contenuto, ma l’epidemia è stata dichiarata finita nel gennaio-febbraio del 2016, più di due anni dopo.
La letalità di Ebola è superiore rispetto a quella del coronavirus COVID-19. Il contagio, invece, è più debole o più forte?
Il contagio di Ebola è estremamente elevato. È un virus che si trasmette con tutte le secrezioni umane – saliva, lacrime, sputo, urine, sperma, feci e sudore – e le vie di contagio sono più ampie di quelle del coronavirus COVID-19, ma questo non viene escreto nelle urine ed è presente nel 25%/30% dei campioni delle feci. Il COVID-19 si trasmette attraverso le mucose e soprattutto per via aerea. La capacità di contagio del COVID-19 è sicuramente inferiore rispetto ad Ebola, ma la capacità di infettare è estremamente elevata.
Dal racconto che stiamo sentendo si capisce che lei ha vissuto in situazioni molto difficili e complicate, dove si doveva intervenire in alcuni casi anche durante condizioni di guerra armata. Lei avrà sentito paragonare l’attuale pandemia di COVID-19 ad una guerra. È esagerato questo paragone?
Io credo che la definizione di questa epidemia di COVID-19 come una guerra sia fuorviante. È fuorviante e serve soltanto a creare ulteriore timore e a creare una situazione psicologica di rinuncia e di delega. Se si accetta l’idea di creare una psicologia di guerra è molto facile per le persone terrorizzate accettare una logica di delega di poteri non ai competenti, ma a figure in grado di concentrare su di sé le scelte.
Io credo che sia pericoloso insistere nel definire questa pandemia di COVID-19 una situazione di guerra. È una situazione di epidemia molto grave, che ci trova impreparati e ci porta ad affrontare l’epidemia più sul versante curativo che non sul versante di prevenzione e di assunzione di responsabilità e di comportamenti idonei a limitare il contatto.
Ebola è stata sconfitta in Sierra Leone tracciando i contatti, isolando le persone, mantenendo le distanze e cambiando le pratiche funerarie. È drammatico e la popolazione italiana sta vivendo in questo momento cosa significa non poter accompagnare i propri cari nell’ultimo viaggio.
In Africa c’era l’abitudine di lavare i cadaveri e aspergere tutta la famiglia allargata durante il funerale con l’acqua usata per lavare i cadaveri.
È giusto uscire da una logica di guerra ed entrare in una logica dolorosa di un’epidemia che richiede comportamenti, responsabilità e solidarietà: io mi astengo dall’uscire perché so che in questo modo proteggo me stesse, i miei cari e i miei concittadini.