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Tratto dal podcast
Prisma di mer 27/05 (prima parte)
Coronavirus | 2020-05-27
Dopo aver superato l’infezione da COVID-19, i polmoni dei pazienti guariti sono a rischio per almeno sei mesi e il 30% dei guariti rischia problemi respiratori cronici. È lo scenario delineato dal meeting della Società Italiana di Pneumologia. È davvero così? Lo abbiamo chiesto al professor Sergio Harari, direttore del reparto di pneumologia dell’Ospedale San Giuseppe di Milano.
L’intervista di Lorenza Ghidini e Alessandro Braga a Prisma.
La notizia si riferisce a dei dati che riguardano sia le prime esperienze che stiamo avendo, sia le condizioni simili a quelle che sviluppano i pazienti che hanno avuto polmoniti da COVID. Non abbiamo oggi un arco temporale di osservazione sufficientemente lungo per poter dare dati più precisi, quindi ci rifacciamo un po’ ad esperienze simili che abbiamo avuto in passato. Quello che emerge però abbastanza chiaramente è che una percentuale di pazienti che hanno sviluppato polmoniti da COVID ne escono con danni permanenti, problemi cronici che andranno poi misurati nel tempo perché è possibile che qualche area di recupero sia reclutabile.
Il problema della gestione dei pazienti con problematiche respiratorie post-COVID è uno dei temi che dovremo affrontare anche in termini di presa in carico di tutti questi pazienti che, purtroppo, non sono pochi.
Si può già dire di che tipo di problemi cronici si possono sviluppare dopo l’infezione da COVID-19?
No, ma possiamo dire che i pazienti che hanno avuto un decorso complicato sviluppano poi delle sequele caratterizzate da un’insufficienza respiratoria, e quindi un danno polmonare permanente con una limitazione funzionale: hanno meno fiato, fanno esercizio con più fatica e alcuni devono utilizzare continuamente l’ossigeno. È il classico quadro dell’insufficienza respiratoria. Ci sono già delle segnalazioni in letteratura: questi malati possono avere una fibrosi polmonare, il polmone cicatrizza con un esito fibrotico che non è idoneo a svolgere la funzione normale del polmone. I danni sono di questo tipo, ma a questi possono associarsi delle situazioni che possono favorire, senza entrare nel dettaglio, bronchiti e polmoniti ricorrenti.
Più in generale, sui dati che arrivano quotidianamente dalla Regione Lombardia possiamo vedere un trend ormai discendente che può farci ben sperare per il prossimo periodo?
Quello che ho cercato di dire in queste settimane è che in questa pandemia dal punto di vista scientifico ci sono molte cose che non abbiamo ancora capito e approfondito. Una delle cose che non stiamo aprendo è come mai il virus stia dando delle manifestazioni cliniche diverse dalla prima fase. Nella prima fase arrivavano malati molto gravi che necessitavano della terapia intensiva. In questo momento stiamo vedendo pazienti con forme molto meno gravi rispetto al passato. Non ci è chiaro perchè stia avvenendo questo, perchè ad oggi non abbiamo l’identificazione di mutazioni virali che giustifichino questo comportamento diverso del virus. L’identificazione della mutazione che ha fatto il laboratorio di Brescia è ancora da verificare per ciò che riguarda la circolazione di quel ceppo nel territorio nazionale. Abbiamo meno casi, sicuramente legati al lockdown e al distanziamento sociale, però c’è qualcosa in più che ancora non ci è chiaro.
Io sono stato pessimista nella prima fase, ma ora complessivamente sono ottimista in questa nuova fase. Certo, avendo così tanti dubbi dobbiamo comunque mantenere una linea di grande attenzione perché non si può escludere che ci sia una seconda ondata epidemica, che sarebbe drammatica. Ricordiamoci che nella spagnola la seconda ondata è stata quella peggiore.
Quali sono i punti della nostra sanità da rinforzare per evitare gli errori della prima ondata?
Questa domanda richiederebbe alcune ore di risposta. Credo che il punto nodale che ha dimostrato la fragilità del servizio sanitario lombardo sia stato l’aspetto territoriale. I presidi territoriali vanno potenziati attraverso i medici di medicina generale, attraverso le strutture sulle quali ci possiamo appoggiare, attraverso il monitoraggio epidemiologico capillare della situazione. Credo che queste siano le prime cose da fare, ma anche avere dei sistemi sentinella che ti avvisino immediatamente di quello che sta succedendo, e in parte il Ministero lo ha fatto. Su quelli che invece sono stati i problemi della gestione dell’emergenza COVID, sia a livello nazionale che a livello lombardo, ci sarebbe tantissimo da dire.