
Il “cosa rimane di”, a ogni anniversario, è pratica giornalistica diffusa. Imperversa anche in questi giorni, con la domanda: cosa rimane di Malcom X, a sessant’anni dal suo assassinio? La risposta è probabilmente duplice. Da un lato, rimane ovviamente la sua figura, la sua ricerca politica, intellettuale, esistenziale, che lo porta da una infanzia e adolescenza difficili, funestate da povertà ed emarginazione, al riscatto, allo studio, all’adesione alla Nation of Islam, alla rimessa in discussione proprio della sua appartenenza religiosa e civile, all’approdo a una visione più inclusiva e universalistica, dopo il viaggio alla Mecca. Resta un pensiero e una pratica radicali, che hanno rifiutato ogni prospettiva puramente assimilazionista alla società dei bianchi. C’è però un altro lato della questione, e qui il giudizio è più sfocato, difficile. Perché se Malcom X continua a troneggiare come una delle grandi figure del Novecento americano, la forza, la capacità di contare che mantiene tra gli afro-americani appare molto meno chiara, molto meno evidente. Il movimento afroamericano esce politicamente indebolito da questi ultimi anni. Movimenti come Black Lives Matter, che avevano contribuito a denunciare la brutalità poliziesca nei confronti dei neri ed erano riusciti a costruire reti e pratiche politiche, non esistono più. C’è un caso piuttosto esemplare, a questo proposito. Mark Fisher, uno dei fondatori di Black Lives Matter in Rhode Island, è diventato un sostenitore sfegatato di Donald Trump ed è una delle figure pubbliche tra gli afroamericani che più spesso va in TV a sostenere e difendere Trump. A proposito di Trump: il presidente sta cancellando a colpi di ordini esecutivi tutti quei programmi di diversità e inclusione che nei decenni hanno consentito ai neri americani di entrare nell’amministrazione pubblica, nel mondo del lavoro, nelle università più prestigiose. Al tempo stesso, ieri sera, Trump ha ospitato alla Casa Bianca un ricevimento per il mese della storia nera, con Tiger Woods e altre personalità eminenti del mondo afroamericano. Tutta gente fantastica, ha esultato Trump, che dice di voler un’America post razziale, in cui le persone siano premiate per le loro capacità e non per il colore della pelle. Intanto però gli afroamericani continuano a rappresentare la parte più debole, esclusa, segnata da povertà, bassi livelli di istruzione, scarso accesso alla sanità, negli Stati Uniti. Non che non esistano prospettive e protagonisti interessanti sulla scena afroamericana. Basti pensare alla straordinaria esibizione di Kendrick Lamar al superbowl. Ma non esiste più un movimento afroamericano compatto, capace di portare le proprie richieste economici, politiche, civili all’attenzione di Washington. È in questa fase non facile, che cade l’anniversario di Malcom X. Il suo pensiero, così radicale e restio ad ogni assimilazione, è lontano da una comunità afroamericana che, più che nel passato, ha sentito il richiamo della chimera di Trump. Ma questo disorientamento, questa confusione, questa incapacità di organizzare una reale alternativa non riguarda solo i neri, riguarda in fondo tutti i progressisti. E allora, il cosa rimane di – Malcom X – è oggi soprattutto una cosa. La X, la X di Malcom X, che stava a indicare la possibilità di un’identità sempre nuova, continuamente da costruire.