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Cosa ha detto il corteo di Milano. E quali domande rimangono

A un certo punto il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha invitato alla prudenza:

“ci sono sono migliaia di persone, ma non facciamo numeri”.

Nessuno si sarebbe aspettato tanta partecipazione.

La città ha reagito al meglio al gesto infame di chi ha imbrattato la pietra d’inciampo posta di fronte alla casa di Dante Coen, arrestato dalle SS il 26 luglio del 1944 al numero 20 di via Plinio, a Milano, e ammazzato a Buchenwald il 4 aprile del 1945.

La manifestazione, un corteo dalla casa di Coen fino al Memoriale della Shoah, al binario 21 della Stazione Centrale, ha espresso sentimenti netti: fermezza, preoccupazione, consapevolezza. Nessuna paura.

Sentimenti con un significato politico profondo.

Il corteo ha detto che questa Milano ha ben chiaro come oggi la minaccia sia rappresentata dalla capacità di penetrazione di idee reazionarie al di fuori degli ambienti in cui erano tradizionalmente relegate, diventando sempre più luoghi comuni.

C’è voglia di uomini forti, di auritarismo, di calpestare i valori democratici -ha dichiarato Sala a Radio Popolarela risposta è il buon governo democratico“.

Una affermazione molto milanese nello stile e nella cultura.

Quello che la manifestazione non ha detto è se la città medaglia d’oro della Resistenza, sempre pronta a muoversi quando serve, rappresenti oggi un’eccezione o un’avanguardia rispetto al pessimo clima politico italiano, reso ancora più cupo dal contesto internazionale.

Ogni volta che ci proveranno, ci troveranno qui” ha affermato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando che ha marciato vicino a Ornella Coen, la figlia di Dante.

Il corteo ha detto che certi simboli contano e sono ancora in grado di unire. Le ultime stagioni politiche hanno accentuato le differenze, in alcuni casi hanno scavato solchi profondi e creato distanze difficilmente colmabili nel breve periodo tra le persone che erano in piazza e nei mondi che rappresentano. I manifestanti hanno detto che a Milano per un giorno, di fronte allo sfregio dei simboli, sono state messe da parte le tante divisioni recenti. C’erano, ad esempio, i militanti del Pd renziano e gli iscritti all’Anpi, insieme per la prima volta dopo una campagna referendaria fondata troppo spesso sulla delegittimazione dell’avversario.

Accanto alla voglia di autoritarismo, in Italia, si coglie anche qualche segnale di un desiderio di normalità, di serenità rispetto all’aria avvelenata e ai discorsi esacerbati degli ultimi anni. Un corteo non basta. Condividere valori comuni non è sufficiente.

Ma la risposta all’imbrattamento della pietra di inciampo dedicata a Dante Coen rimane un momento importante.

  • Autore articolo
    Luigi Ambrosio
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    Il populismo d’Argentina. E’ quello che ha caratterizzato Jorge Maria Bergoglio durante i suoi dodici anni di pontificato. Scrive oggi sul quotidiano Domani, Nadia Urbinati, teorica della politica alla Columbia University di New York. «Figlio d’Argentina, culla del populismo, la retorica che taglia in due fatti e concetti, che arriva diritta alle emozioni, che non fa sconti perché il giusto e lo sbagliato devono stare o di qua o di là. Il populismo argentino fu social-nazionale in politica e conservatore nei valori. Così papa Francesco, che non ha avuto difficoltà a essere populista progressista nelle questioni sociali e conservatore in quelle morali, del resto coerenti ai principi della Chiesa di Roma». Bergoglio ha saputo tenere insieme lingue diverse. E non è detto che sia stata sempre una virtù. Papa Francesco ha tenuto insieme la lingua della Laudato Si’, che denuncia le ingiustizie contro l’ambiente, gli umani, che tiene insieme la crisi sociale e ambientale. Bergoglio ha tenuto insieme questa lingua con una lingua violentemente anti-abortista. Diceva nel settembre 2024: «un aborto è un omicidio, si uccide un essere umano», e «i medici che si prestano a questo sono, permettetemi la parola, sicari». Pubblica ha ospitato Rosa Fioravante, ricercatrice e docente di etica aziendale e delle organizzazioni; e Enrica Morlicchio, sociologa del lavoro, docente all’università Federico II di Napoli.

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    Nella puntata di A come Aprile del 22 aprile, a cura di Alessandro Braga, abbiamo ospitato Lorenza Ghidini, che ci ha parlato delle iniziative di Radio Popolare in vista dell’80esimo anniversario della Liberazione. Abbiamo proposto l’intervista a Giorgio Ferrari Bravo, che aveva dieci anni nel 1945 ed era a Milano il giorno della Liberazione. Infine Marcello Lorrai ci ha raccontato la storia del musicista Alberto Rabagliati.

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