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Coronavirus, paura e sicurezza. Parlano i filosofi Escobar e Boella

epidemia coronavirus

Razionalità e panico, paura e sicurezza; e poi regola, eccezione, contagio, immunità. È il lessico della crisi da coronavirus. Una situazione inedita, se consideriamo i provvedimenti presi da governo e regioni per limitare il contagio. Una situazione non sorprendente, invece, se consideriamo la reazione di paura al coronavirus, e anche panico, che si è diffusa in alcune parti della popolazione.

Il filosofo Giorgio Agamben, in un articolo sul Manifesto, riporta alcune affermazioni del CNR sull’infezione COVID-19, definito “un’infezione che causa sintomi lievi-moderati nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva“.

Agamben si chiede perchè i media e le autorità, nonostante il quadro fornito dal CNR, diffondono il panico e provocano uno stato di eccezione con gravi limitazioni dei movimenti delle persone. Sono due, secondo Agamben, i fattori: tendenza ad usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo e lo stato di paura da coronavirus che in questi anni si è diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale.

Ne abbiamo parlato a Memos coi filosofi Laura Boella e Roberto Escobar. L’intervista di Raffaele Liguori.

Laura Boella. Condivido il primo punto di Agamben sulla frequenza di questi stati di emergenza. A partire dall’11 settembre 2001 sappiamo benissimo che, dopo ogni attentato terroristico, quando uno va in metropolitana si chiede “succederà anche a me?”. Si vive in una quasi spontanea auto-limitazione dei propri movimenti e delle proprie libertà.
Sul secondo punto vorrei ragionare di più. Dice che “abbiamo bisogno di ripetuti stati di paura” e che questo verrebbe soddisfatto dalle restrizioni imposte dalle autorità. Sul fatto che ne abbiamo bisogno sono molto dubbiosa. Direi invece che viviamo in una condizione di incertezza, di frustrazione e di impotenza rispetto ad un Mondo fuori controllo. Oggi stiamo parlando di una epidemia, però parliamo anche della crisi climatica. Anche rispetto alla crisi climatica tutti noi ci sentiamo impotenti e sentiamo questo aspetto fuori controllo, ma anche legato ad una difficoltà dell’avere un’esperienza innanzitutto percettiva, in prima persona. Molti fenomeni del riscaldamento globale non li sentiamo o non li annusiamo. E questo particolarmente difficile il rapporto tra le nostre vite e la limitatezza della nostra esperienza con quei processi che ci vengono proposti come processi che ci passano sopra la testa e rispetto ai quali non possiamo fare niente. Dobbiamo renderci conto che la paura è un’emozione arcaica che nel corso dell’evoluzione si è rivelata molto utile per difenderci da pericoli immediati e dalle minacce che vengono dal mondo esterno. Come tale, però, ha un effetto di paraocchi e di restrizione della nostra esperienza.

Roberto Escobar. Io parlerei di politica. Quello che Agamben chiama “il bisogno di paura” non è che il modello politico che negli ultimi 20 anni sta trionfando. Se dimentichiamo la politica non capiamo più niente.
Non è che io abbia bisogno di paura, è che io negli ultimi 20 anni sono stato abituato ad affrontare ogni questione complessa mediante lo strumento semplificatore della paura. Ci sono degli imprenditori della paura che trovano più efficiente e più efficace raccogliere consenso indicando paure e indicando colpevoli. È più semplice e più facile convincere la gente che i problemi non sono complessi, che basta far fuori qualcuno o bloccare diffusori di virus e tutto viene risolto. Quanto allo stato d’eccezione, per me semplicemente si tratta di un cambio quasi epocale di modello politico. La paura non è un sentimento, ma un atteggiamento fondamentale. Senza paura non saremmo qui come specie umana. La politica trasforma la paura in decisione, trasforma il pericolo in rischio. Il coronavirus è per sé un pericolo e può fare paura, ma diventa un rischio quando la politica interviene e stabilisce comportamenti ragionevoli. Quando la politica non c’è, questo passaggio salta e il risultato è il panico.

Laura Boella. Bisogna tenere conto che siamo esseri umani ed è perfettamente comprensibile che l’irruzione improvvisa di un fenomeno che in questo momento è difficilmente inquadrabile, anche scientificamente, è impossibile che non sconvolga le nostre abitudini e le pseudo-certezze con le quali noi pensiamo di garantirci dall’incertezza e dall’ignoto del mondo in cui viviamo. Io citerei Spinoza, che raccomandava di non ridere, non piangere, ma comprendere. Al posto di contrapporre ragione a emozione, io parlerei di sforzo di capire: dobbiamo sforzarci di controllare, per quanto possibile, le nostre risposte emotive e passare un altro piano, che vuol dire innanzitutto cercare di capire qualcosa di molto complicato. Mentre la paura è un istinto molto arcaico, noi ci troviamo di fronte a qualcosa che ci chiama alla complessità della possibilità della medicina, del fare un vaccino. Questioni che necessitano di attività intellettuali specialistiche.
Siamo proprio in una combinazione di passato arcaico della specie e di radicamento in un mondo contemporaneo estremamente complesso, il passaggio di piano vuole innanzitutto dire uscire dall’autoreferenzialità. Credo che le persone siano fondamentalmente preoccupate della sopravvivenza, che è una forma di impoverimento dell’esperienza: di fronte agli scaffali vuoti dei supermercati, Beppe Sala ha giustamente detto “occupiamoci di più dei nostri anziani”. Questo è un vero passaggio di piano: uscire da questo istinto angosciato per la propria sopravvivenza e spostarsi verso un evento che coinvolge altre persone.

C’è una questione di empatia che andrebbe posta per spostare questo piano.

Laura Boella. Certo, nel momento in cui uno apre questa esperienza anche alle relazioni con gli altri, ecco che qui il cinese non sarà soltanto l’untore, la persona che tossisce non sarà solo quella da cui devo allontanarmi. Ma io inizierò a vedere che il problema non riguarda soltanto me e la mia famiglia, ma riguarda anche il mio prossimo.

Su che altro piano ci si può posizionare per uscire da quella stretta del panico?

Roberto Escobar. La vera questione è più ampia e meno individuale. Konrad Lorenz parla della schiera anonima, quei branchi di pesce azzurro che sta insieme a palla, ma appena uno fa qualcosa perché intuisce un pericolo, tutti vanno in quella direzione. Questa schiera anonima manca di strutturazione sociale complessa. La dimensione nella quale noi oggi comunichiamo prevalentemente manca di strutturazione sociale complessa. Ci sono i titoli di giornali che non hanno dietro alcuna responsabilità politica e giornalistica, ma soprattutto c’è questa dimensione informe a cui tutti ogni giorno ci rivolgiamo che si chiama social network. Nei social network non si può arrivare ad alcuna considerazione di tipo ragionevole, perché ognuno di noi è un pesce azzurro dentro un branco che non ha comunicazione vera, se non emotiva. Questo è il disastro. Siamo in balìa di pesci grossi che ci dicono che dobbiamo avere paura del coronavirus e li seguiamo perché siamo esposti ad una comunicazione strutturata.

Foto dalla pagina Facebook di People’s Daily China

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    Gaza, ucciso il capo di Hamas Yahya Sinwar

    Il capo di Hamas Yahya Sinwar è stato ucciso dall’esercito israeliano. La notizia è stata diffusa nel pomeriggio, dapprima tramite social, poi dai media di Tel Aviv. Un’ora fa hanno iniziato ad arrivare le prime conferme ufficiali. Secondo la versione diffusa fino ad ora, Sinwar sarebbe stato colpito da una pattuglia di soldati israeliani a Rafah mentre si trovava per strada, armato, insieme ad altri due miliziani. A minuti è atteso un discorso del premier israeliano Netaniahu. La morte dell’uomo più ricercato di gaza apre naturalmente molti interrogativi sul futuro della guerra e sul destino degli ostaggi ancora detenuti nella striscia. Sinwar aveva assunto la leadership di Hamas dopo l’uccisione di Ismail Hanyeh. È considerato una delle menti del 7 ottobre, per un anno ha gestito la guerra dalla striscia di Gaza. Era, almeno formalmente, l’obiettivo numero 1 di Tel Aviv. Il ritratto di Paola Caridi, giornalista e scrittrice.

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