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“Convivenza, tolleranza: la risposta a Daesh”

Sono passate due settimane dagli attentati di Parigi, la strage che ha fatto 130 morti, 352 feriti, un centinaio dei quali ancora in ospedale di cui 30 – fino a due giorni fa – erano ancora ricoverati nei reparti di terapia intensiva. Alcune affermazioni sentite in queste due settimane rappresentano lo spirito del momento. Eccone alcune: “siamo in guerra”, “è l’11 settembre della Francia”, “gli islamici moderati prendano le distanze dai terroristi”, “la ferocia dei terroristi ha colpito i luoghi della vita quotidiana, i nostri stili di vita”. Ne abbiamo parlato con Marcello Flores che insegna Storia comparata e Storia dei diritti umani nell’Università di Siena, dove dirige anche il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies. Vediamo punto per punto le singole affermazioni.

“Siamo in guerra”/1.

E’ l’affermazione del presidente francese Hollande la sera degli attentati di Parigi e poi nel discorso davanti al parlamento riunito a Versailles. Ma è una guerra che ha un problema di alleanze, per cui sembra non valere la proprietà transitiva: Francia e Russia collaborano militarmente, Francia e Turchia sono membri della Nato, quindi Russia e Turchia dovrebbero stare sullo stesso fronte. Invece no. Perché, professor Flores, non regge questa proprietà transitiva? Che tipo di guerra è se il sistema delle alleanze ha delle contraddizioni al proprio interno? «Probabilmente – risponde Flores – non regge proprio perché non è una guerra. Al di là della risposta, più emotiva che razionale, data da Hollande e che gli è stata rimproverata da molti, è proprio il sistema di alleanze che non funziona. Fosse stata una guerra la questione si sarebbe risolta rapidamente: ci sarebbe stato un accordo tra tutti coloro che volevano davvero costringere il califfato alla resa e colpirlo direttamente sul terreno. Come sappiamo dagli analisti militari il fatto che pochi curdi, anche male armati, riescano a conquistare il terreno del califfato, ci fa capire che dal punto di vista militare non sono certo così invincibili come si crede. Il problema è, invece, che in Europa abbiamo di fronte il terrorismo, una rete di cellule tra loro collegate, ma anche autonome. Da questo punto di vista – aggiunge lo storico – chiamarla guerra è solo una scelta di tipo politico e ideologico. Credo che il nostro presidente della Repubblica Mattarella abbia fatto bene, nella sua recente visita a Bruxelles, a non pronunciare mai la parola guerra».

marcello flores
Marcello Flores

“Siamo in guerra”/2.

Il capo del governo Renzi, nel suo incontro a Parigi con Hollande, ha raccontato che l’obiettivo dell’Occidente è distruggere Daesh (il cosiddetto stato islamico), anche sul fronte culturale. Quale sia la cultura che si propone per sconfiggere il fondamentalismo islamista Renzi non lo ha detto, ma in questi giorni leader di governo, esponenti politici, lo stesso presidente francese, hanno contrapposto la cultura dei valori di libertà alla violenza terroristica. La domanda, professor Flores, è se la classe dirigente dell’Occidente, dell’Europa in particolare, oggi abbia pieno titolo per contrapporsi a Daesh in nome dei valori repubblicani di libertà, uguaglianza, fraternità? Le politiche dell’austerità di questi anni cos’altro sono state se non la dimostrazione del tradimento di una delle maggiori conquiste dell’Europa dei diritti del secolo scorso, e cioè lo stato sociale? L’Europa ha la forza politica e culturale per combattere Daesh in nome di quei valori?

«Penso che non ce l’abbia – risponde lo storico Marcello Flores -. E credo che la causa sia l’incapacità e la non volontà di muoversi nel rafforzamento dell’Europa, ancor più che per i motivi che lei ha elencato, e che potremmo considerare una debolezza di analisi e di scelte affrettate e sbagliate. Su tutti i piani: da un punto di vista politico, e non solo di controllo di certe dinamiche economiche e finanziarie, e dal punto di vista della sicurezza. Ciò che abbiamo letto in questi giorni circa la totale incapacità di collegamento tra i servizi informativi degli stessi paesi europei è significativo. Dimostra l’incapacità di pensare che oggi è necessario, più che in passato, devolvere all’Europa un plus di sovranità. Capisco che in ogni paese europeo ci sia la necessità di contrastare gli antieuropeisti, ma questo è uno dei drammi che rende difficile risolvere le questioni».

“E’ l’11 settembre della Francia”.

Perché viene fatto questo paragone, professor Flores? «Distinguerei due aspetti. Da una parte è inevitabile richiamare una grossa tragedia ad un’altra grande tragedia che è stata forse l’inizio di tutta questa fase del terrorismo. Dall’altra invece temo che il richiamo all’11/9 riguardi la risposta americana a quell’attentato e quindi l’invito a pensare a quel tipo di risposta estremamente forte da un punto di vista verbale e di manifestazione di potenza, ma totalmente sbagliata e deviata dal punto di vista degli obiettivi (vedi Afghanistan e soprattutto Iraq). Credo che dovremmo dire no, non può essere un 11/9, non dobbiamo rifarci all’11/9 perché dobbiamo riuscire a dare delle risposte ben diverse da allora».

“Gli islamici moderati prendano le distanze dai terroristi”.

Giusto prendere le distanze, professor Flores, ma la richiesta insistente è suonata come una richiesta di abiura, di sconfessione di una propria fede. Cosa ne pensa? «E’ un’affermazione triste, perché nel migliore dei casi sottintende ancora un atteggiamento paternalista, mentre nel peggiore dei casi si presenta anche con venature razziste nei confronti dei musulmani. Noi non chiediamo mai – racconta lo storico – agli ebrei italiani o europei di prendere le distanze quando un’azione dello stato di Israele in Palestina ci fa inorridire. Le distanze le prendono per conto loro come oggi sono state prese da parte dei leader islamici nei confronti della violenza terroristica. Questa richiesta sottintende ancora un rapporto sbagliato con l’islam, che continuiamo a concepire come responsabile degli atti di quei terroristi fanatici, criminali che, come dicono loro, operano “in nome dell’Islam”, mentre gli islamici veri parlano di tradimento della fede, del Corano. In Francia le banlieus parigine sono il luogo, a detta di tutti gli studiosi, dove cresce non tanto il radicalismo islamico ma l’uso dell’islam per giustificare una rabbia radicale che c’è nei confronti dello stato, della cosa pubblica, della vita di tutti i giorni, dell’Occidente».

“I terroristi hanno colpito i luoghi della vita quotidiana, del nostro stile di vita. Non è stato un attacco simbolico”.

E’ il punto conclusivo, professor Flores, e forse è anche il più delicato. Le sottopongo un ragionamento prima di arrivare a qualche domanda. Allora: è fuori di dubbio che la nostra vita al Bataclan di Parigi sia uno dei simboli di un modo di vivere. Ed è fuori di dubbio che nella città di Raqqa, finché sarà sotto il controllo dei fondamentalisti di Daesh, non ci potrà essere un’atmosfera “parigina”, da loro stessi definita “abominio” e “perversione”. Dunque, per semplificare: c’è un “noi” (la Parigi del Bataclan) e un “loro” (Daesh, i terroristi della strage del 13 novembre). Una distinzione chiara, in questo caso specifico. Ma cosa accade se questa differenza specifica la generalizziamo? Una possibile generalizzazione è quella che ci porta a parlare di un “noi”, inteso come tutto l’Occidente, e di un “loro” costituito non solo da Daesh, ma anche dai “paesi dominati dall’islamismo eretto ad unica legge”, come ha scritto sul Corriere della Sera Pierluigi Battista. L’editorialista del Corriere cita paesi come l’Afghanistan, l’Iran, l’Arabia Saudita. E’ vero: Roma non è Kabul, Parigi non è Teheran, Londra non è Ryad. Vero. Però, le generalizzazioni che mettono l’enfasi su queste “oggettive differenze” presentano un limite, tendono a fare di tutta l’erba un fascio. Battista sul Corriere non spiega perché laddove “l’islamismo è eletto ad unica legge” regni l’oppressione e manchi la libertà (Kabul, Teheran, Ryad). Domanda: è colpa dell’islamismo in sé oppure è la conseguenza insita in ogni regime teocratico, dove l’unico fondamento della legge è Dio e la sua religione, e non invece gli uomini (le persone, gli individui)? Direi la seconda. Ma, allora, ogni teocrazia è liberticida, qualunque sia la religione su cui si fonda. A meno di non credere che alcune religioni, e non altre, siano in grado di redimere una teocrazia dalla sua natura antidemocratica. Ciò detto, anche se si ritenesse una religione meno consona di altre alla democrazia, il compito di ogni democratico, qui da noi, resterebbe inalterato: professare i valori della modernità, illuminista e repubblicana (libertà, uguaglianza e fraternità), favorire l’allargamento dei diritti, l’inclusione sociale, riconoscere la cittadinanza, e non invece predicare l’esclusione a cui discriminazione e odio finiscono per aggrapparsi. Oggi – e concludo, professor Flores – Daesh va combattuto con la forza di un progetto politico (ne abbiamo discusso a Memos qui e qui) e in nome di questi valori repubblicani. La minaccia del cosiddetto “stato islamico” va combattuta anche insieme a coloro che oggi in Europa vogliono vivere il proprio “islamismo”, il proprio essere musulmani, senza essere paragonati ai talebani a Kabul, ai monarchi sauditi o al clero sciita di Teheran. Ce la possiamo fare, professor Flores?

«Noi dobbiamo rispondere con gli aspetti più positivi – conclude lo storico Marcello Flores – con i principi più seri di convivenza, tolleranza, capacità di ascolto. Ciò non vuol dire non essere forti, non essere pronti a reagire, non avere chiarezza di quali possano essere gli strumenti anche necessari da utilizzare in determinati momenti. Al fondo, però, ci deve essere questa visione di non contrapposizione tra civiltà o, ancor peggio, tra religioni».

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    Raffaele Liguori
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