
Dasht-e Lut significa il deserto nudo. Nulla resta a vestire la terra, dopo che il sole nei mesi estivi l’ha cotta a 70 gradi. Nulla se non l’orizzonte, che si schiude, vasto come non lo si vede ad altre latitudini, oltre la strada. L’unico appiglio per gli occhi sono le montagne spruzzate di neve che si stagliano a chilometri di distanza. Questo è il cuore dell’Iran, il luogo da cui sgorgano le storie che rendono vivo anche questo luogo all’apparenza tanto ostile. Da qui è nato il fiorire della civiltà persiana. Un gioiello ancora poco scoperto dai turisti dell’Occidente, nonostante dalla sua cultura abbia attinto a mani piene. Gli scacchi, per dirne una, vengono dall’antica Persia: il gioco deriva il suo nome da Shah Maat: “il re è morto” in persiano.
Nel 2014 secondo i dati dell’organizzazione del turismo iraniana, in cinque milioni di persone hanno visitato quella che un tempo era Persia. Soprattutto dai Paesi vicini, per i quali non è richiesto il visto: Azerbaijan, Turchia, Turkmenistan, Iraq e Afghanistan. Pochissimi (sui cinquemila e ne è chiaro il motivo) americani. La fine delle sanzioni – se mai sarà definitiva – potrebbe essere la svolta. Potrebbe aprire le porte a tutto l‘Occidente al paradiso iraniano. Il ministro del turismo di Teheran si aspetta 20 milioni di visitatori già tra un anno.
Amir guida immerso nelle sue parole. I baffi sale e pepe si muovono assecondando il suo inglese rotondo, chiaro e formale. È un insegnante di inglese in pensione, che per arrotondare (guadagna intorno ai 600 euro al mese), porta in giro turisti. Ha da poco ottenuto la licenza per farlo. Sta racconta la storia di Nikbanou, la seconda figlia dell’imperatore pre islamico Yazdegerd III, dell’Impero Sassanide. L’Iran, dopo di lui, è stato arabizzato e islamizzato a forza: era il 640. Quando ormai tutto era perduto, Nikbanou, secondo la leggenda, scappò a cercare rifugio nell’ostilità del Deserto Nudo: rischiava di essere uccisa o imprigionata. Nikbanou si nascose all’interno di una montagna, dove oggi è sorto un tempio, sacro alle migliaia di persone che ancora seguono la sua religione: lo Zoroastrismo. Gli Zoroastriani erano in quel momento gli infedeli da convertire e i loro Shah, il potere da sovvertire. Quel luogo si chiama Chak Chak, dal nome dello sgocciolare perenne di una fonte interna alla roccia, sul pavimento del tempio.
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Visto da lontano, pare un abuso edilizio: edifici all’apparenza diroccati, sparpagliati a casa in un fazzoletto di pendice. Tutto si mimetizza con l’ocra della montagna e nulla pare avere una sua funzione. Uno, due, tre, quattro, cinque curve e si è al cospetto della scalinata di 234 gradini con la quale si raggiunge il tempio. Amir ancora non ha smesso di parlare: sta raccontando le origini dello Zoroastrismo, i principi fondamentali (“buone azioni, buoni propositi, buone parole”) per guadagnarsi la pace.
S’interrompe solo nei 15 minuti che servono per salire fino in cima e farsi consegnare le chiavi del tempio. Varcata la soglia, si confessa: “Non posso dirlo ad alta voce, ma penso che tutte le religioni, in fondo si somiglino tutte”. Amir è musulmano praticante, ma in più di un’occasione lascia intendere che il suo modo di cercare l’infinito nulla a che vedere con la politica. Gli pare assurdo invece che qualcuno rischi la persecuzione per via di quel che crede. Certo, il suo è il punto di vista di un uomo che ha una cultura enorme (al di là delle storie del guerriero nazionale Rostam, impareggiabili, cita passi della Divina Commedia di Dante), di chi ha vissuto anche prima che la religione musulmana fosse usata come un lucchetto per isolare dal mondo l’Iran.
“La religione è solo uno scusa per mandare qualcuno a morire”, diceva quando, uscendo da Yazd, la città che dà il nome alla regione di Chak Chak, si vedevano file e file di immagini di ragazzi, piantate in cartelloni nel mezzo della strada. Intorno ai loro volti, così giovani, un’alone che ricorda le nostre immagini sacre. “Sono i martiri della guerra con l’Iraq”, spiegava Amir, indicandoli. Mentre guardava fisso la strada, si capiva che il suo pensiero stesse riavvolgendo il nastro del tempo, fermandosi all’inizio degli anni Ottanta. Anche lui all’epoca era sul fronte, in Khuzustan, senza sapere se avrebbe mai fatto ritorno a casa. Si combatteva per esportare la rivoluzione di cui lui, come tanti altri, vorrebbe fare a meno.
A far scaturire quel pensiero di morte, insieme alle immagini dei soldati morti, forse sono stati i notiziari. Sono i giorni subito dopo l’esecuzione di Nimr al-Nimr, il predicatore saudita ucciso dagli sceicchi di Ryhad perché accusato di cospirare contro la famiglia reale. Sciita, al-Nimr era un uomo molto vicino a Tehran. L’esecuzione è una dichiarazione di guerra che ha infiammato la regione: in Bahrein, in Turchia, in Iraq, in tutti i Paesi dove c’è una componente sciita, sono state attaccate le ambasciate dell’Arabia Saudita. Per le moschee delle maggiori città dell’Iran centrale spesso si trova un manifesto. In alto, l’inconfondibile barba di al-Nimr che scorge l’orizzonte. “Il risveglio non si puo sopprimere” (“Awakening is not suppressible”), una frase pronunciata dalla guida religiosa, l’ayatollah Khamenei, il 16 maggio 2015.
Sotto, la figura di un uomo stilizzato, diviso in due. Da un lato, si vede l’inconfondibile tunica degli arabi e la kefiah in testa. Sguaina una scimitarra, mentre sotto di lui è inginocchiato un uomo. Accanto un fumetto: “Sentenza di esecuzione per opporsi ai sostenitori dell’Isis”. L’altra metà di uomo è uguale a Jihadi John, il miliziano dell’Isis protagonista dei video in cui sono stati sgozzati diversi prigionieri inglesi e americani. L’uomo in ginocchio, come nei video dell’Isis, ha la tuta arancione di Guantanamo. “Sentenza di esecuzione per opporsi all’Isis”. La rappresaglia antisaudita, manifesta solo a Tehran, mista al ricordo degli anni al fronte avevano prodotto un’amara congettura: “Temo che sia questione di tempo e questa regione sarà ancora attraversata da una nuova guerra. E ci saremo anche noi”, dice Amir, mentre guida.
Dentro Chak Chak, il tempo pare fermo. I brutti pensieri di poche ore prima si sono sciolti come neve al sole. Al cospetto della storia si ha sempre l’impressione che l’oggi sia così piccolo. Al contrario, la storia amplifica le gesta di ieri. E la speranza che il ciclo positivo si ripeta.
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Appesa al muro c’è un’immagine della tomba di Ciro il Grande a Pasargade, nei dintorni di quella che un giorno fu Persepoli. Sopra la tomba c’è una scritta : “Io sono Ciro e conquistai un impero ai persiani, non invidiarmi questa pietra che ricopre il mio corpo”. Si narra che tanto bastò a fermare Alessandro Magno dalla furia distruttiva che l’aveva preso, una volta sconfinato in Persia.
“Il problema esiste per chi non conosce, per i giovani che non sanno come aggirare la polizia religiosa, per chi è costretto a stare nell’ignoranza e prende frustrate se solo osa incontrare una donna in un luogo pubblico senza avere un vincolo formale che li unisce”, dice Amir. Spiega gli stratagemmi per evitare la carcerazione, come il matrimonio temporaneo: un documento “a scadenza” che si può fare di fronte ad un avvocato, che lega per un periodo di tempo un uomo e una donna. E poi perde ogni valore. Racconta che avere vent’anni non è come averne cinquanta: “Solo per i giovani la vita è complicata”. Nelle sue parole c’è la franchezza di chi sa che le contraddizioni del suo Paese non sono riducibili in poco tempo. Né sono minimamente comprensibili da un “turista” particolarmente curioso. Ma sono anche un appello a non limitarsi a considerare lui e la sua cultura con gli occhi di un Paese nemico da trent’anni. Forse, da oggi, si comincerà a scrivere un’altra storia.
Per saperne di più:
Farian Sabahi, Storia dell’Iran, Mondadori 2008
Kamin Mohammadi, Mille farfalle nel sole, Piemme 2013