Cinque Stati del nord-est a Donald Trump, quattro a Hillary Clinton, uno, il Rhode Island a Bernie Sanders.
La corsa alla nomination per democratici e repubblicani sembra ormai piuttosto definita. Il vantaggio, in termini di delegati, per Trump e Clinton appare ormai difficilmente colmabile. Restano aperte le questioni politiche, le dinamiche che condurranno prima alle Convention di luglio, poi alla campagna elettorale prima del voto di novembre.
Con il risultato di ieri, Trump ha raggiunto il 75 per cento dei 1237 delegati che gli servono per aggiudicarsi la maggioranza assoluta. Se vince la settimana prossima in Indiana, la maggioranza assoluta è sua; se non vince, e dunque non ha la maggioranza assoluta, si va a una contested Convention a Cleveland, il prossimo luglio, una convention in cui cercheranno di sottrargli i delegati e di spostarli su un altro candidato.
E’ un’ipotesi che Trump non vuole nemmeno prendere in considerazione. “E’ finita, ve lo posso assicurare, è finita”, ha detto ieri, parlando ai suoi sostenitori dalla Trump Tower di New York. Proprio per dare i senso di questa inevitabilità, e di essere il candidato in pectore, Trump ha dedicato pochissima attenzione ai suoi rivali e si è rivolto soprattutto alla Clinton, con l’attacco sinora più deciso.
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“La chiamo Hillary truffaldina, perché Hillary è disonesta – ha detto Trump, aggiungendo che il marito Bill ha firmato il North America free trade agreement, che è stato “un disastro per questo Paese”. Trump ha proseguito dicendo che “Hillary non sarebbe un buon presidente. Non ha la forza per negoziare con la Cina, e sarebbe tremenda in tema di sviluppo economico”. Dopo aver citato i “fallimenti” delle politiche della Clinton a Benghasi, in Siria e in Iraq, “dove ha alzato le mani”, Trump ha spiegato che la candidata democratica “ha avuto le sue possibilità, ha fallito, e ora non dovrebbe essere votata”.
Poi Trump ha affrontato il tema forse più spinoso, quello di genere. “La sola carta che la Clinton può giocare è quella dell’essere donna – ha detto -. Francamente, se Hillary fosse un uomo, non prenderebbe nemmeno il 5 per cento dei voti… E non è fantastico che lei non piaccia nemmeno alle donne?” si è chiesto retoricamente. Mentre il candidato parlava, dietro di lui alzava visibilmente gli occhi al cielo, in segno di insofferenza, Mary Pat Christie, la moglie del governatore Chris Christie, che ha fatto dichiarazione di voto a favore di Trump. Oltre a diventare immediatamente “virale”, l’alzata degli occhi della Christie testimonia delle difficoltà che Trump avrà a conquistare il voto femminile a novembre.
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In campo democratico, la sfida appare più tranquilla ma non completamente risolta. Bernie Sanders non intende ritirarsi. Lo ha ripetuto anche ieri, parlando in West Virginia. “Alcuni sondaggi nazionali ci danno davanti alla Clinton”, ha tuonato, attaccando ancora una volta le procedure di voto delle primarie democratiche, che tengono fuori quel voto indipendente a lui favorevole. Nonostante la retorica della “battaglia che non si ferma”, Sanders è fuori gioco. Per lui, a questo punto, resta soprattutto un obiettivo. Raccogliere più delegati possibili, da qui alla fine delle primarie, a giugno, e farli poi pesare nel corso della Convention a Philadelphia, a luglio.
Il compito della Clinton è invece opposto: quello di raccogliere il partito sotto la sua leadership. Proprio ai supporters e ai sostenitori di Sanders la candidata si è rivolta ieri sera, quando ha detto: “Io applaudo il senatore Sanders e i suoi milioni di elettori per averci sfidato”. Ha continuato,: “Che voi sosteniate il senatore Sanders o sosteniate me, sono più le cose che ci uniscono rispetto a quelle che ci dividono. Siamo tutti d’accordo che i salari siano troppo bassi e l’ineguaglianza troppo alta”. Poi, per definire il quadro politico entro cui la sua candidatura si colloca, ha concluso: “Insieme, costruiremo una tradizione progressista forte, che è poi quella che da Franklin Roosevelt arriva a Barack Obama”.
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