C’è un limite all’espressione del dissenso?
La domanda nasce dopo il primo giorno della Convention repubblicana a Cleveland. Una serie di manifestazioni sono state programmate in città. A partecipare gruppi molto diversi: le sigle antirazziste, gli attivisti di Black Lives Matter, i militanti anticapitalisti, gli ecologisti, i pacifisti.
Ma a Cleveland sono arrivati anche i cristiani radicali della Westboro Baptist Church, quelli che gioiscono per la morte dei gay, degli ebrei, dei soldati americani in Afghanistan e Iraq (in quanto punizione per presunti peccati di cui si è resa responsabile l’America).
Nel primo giorno di Convention, le proteste ci sono quindi state. Senza tensioni, incidenti o scontri. Il numero dei manifestanti è stato, almeno per il momento, inferiore alle attese. A Cleveland, a protestare contro un candidato particolarmente controverso come Donald J. Trump, non sono arrivate le migliaia di persone che si temeva. O sperava, a seconda dei punti di vista.
Ai manifestanti, è stato concesso di protestare in aree pre-stabilite: la Public Square, in centro, e il Lorain-Carnagie Bridge, più distante dalla Convention. In alcuni casi, hanno anche potuto percorrere un certo tratto di strada nella Downtown di Cleveland.
E qui sorge il dubbio. Il diritto di protesta non si limita infatti soltanto alla possibilità di esprimere dissenso. Diritto di protesta è la possibilità di esprimersi in modo che la propria opinione – contraria – venga ascoltata. Giudicata. Accolta o rifiutata.
Non è quello che è successo a Cleveland. I manifestanti sono stati appunto tenuti in aree pre-stabilite, lontane da dove si svolge la Convention e dove sono concentrati media e pubblico. Mi è capitato di vedere poche decine di dimostranti circondati da un numero spropositato di agenti. Il cordone di polizia era così fitto che a malapena li si vedeva e sentiva.
Cleveland è questi giorni una città in stato d’assedio. Migliaia di agenti la presidiano. I luoghi della Convention, la Quickens Loan Arena e il Convention Center, distano un paio di chilometri e sono collegati attraverso un percorso ermeticamente chiuso, dove sono state innalzate alte cancellate che impediscono di vedere fuori e di essere visti. Il percorso tra i due centri lo si fa con un servzio di shuttle.
Questo significa che la possibilità di contatto tra chi protesta e chi segue la Convention è ridotta al minimo. Calvin Williams, il capo della polizia di Cleveland, l’ha del resto detto molto chiaramente: “E’ diritto di chi protesta esprimere le proprie opinioni e permetteremo persino alla gente di marciare per le strade. Ma se diventerà una questione di sicurezza, dovremo fare quello che la polizia fa per garantire la sicurezza di tutti”. In altre parole, manifestare è ok, ma con limiti molto chiari.
Il momento non è del resto facile. I fatti di Dallas e Baton Rouge, la tensione che cresce sulle questioni razziali, le proteste che hanno spesso accompagnato i comizi di Trump sin dalle primarie (con i contestatori malmenati dai sostenitori di Trump) preoccupano. Di più, in Ohio è in vigore la open-carry law, la legge che permette di portare armi in pubblico: un dettaglio che contribuisce a rendere ancora più tesa la situazione per le strade.
Prima che cominciasse la Convention di Cleveland, alcuni hanno anche richiamato i fatti di Chicago del 1968. Allora, durante la Convention democratica, si scatenò la protesta e la polizia reagì con straordinaria violenza. I manifestanti urlavano The whole world is watching, The whole world is watching, l’intero mondo sta guardando, ma intanto la polizia li picchiava, li portava in prigione e usava gas lacrimogeni.
Cleveland 2016 non è stata Chicago 1968. Da allora del resto, proprio dai fatti di Chicago 2016, le Convention sono diventate eventi coreografati in modo accurato, con controlli di polizia molto severi. Quando la contestazione è esplosa, come alla Convention repubblicana di New York nel 2004, durante la guerra in Iraq, l’intervento di polizia è stato immediato, durissimo, illegale (i manifestanti picchiati e incarcerati allora hanno aperto una class action e l’hanno vinta).
Il problema dunque rimane – ed è visibile in questi giorni a Cleveland. La preoccupazione di disordini può portare, di fatto, a svuotare il diritto a manifestare il dissenso? E’ possibile creare, come è stato fatto a Cleveland, delle free speech zones che sono di fatto ghetti dove si confina il dissenso? Il diritto alla protesta non viene così soltanto formalmente assicurato? Nella forma, appunto, ma non nella sostanza.
Sono domande che non riguardano ovviamente soltanto i repubblicani e la Convention di Cleveland. La prossima settimana inizierà quella democratica, a Philadelphia, e il problema si riproporrà. La polizia ha assicurato che ai dimostranti – molti saranno i sostenitori di Bernie Sanders – verrà garantito lo spazio del FDR Park per le proteste. Il parco si trova però separato dal Wells Fargo Center, dove si svolge la Convention, da un’ampia strada alberata – e ovviamente blindata.
Cosa si riuscirà a indovinare delle proteste? Come riusciranno a far sentire la loro voce i dimostranti, ancora una volta chiusi in gabbie dedicate al free speech?