“La grande fase dell’elaborazione di storie del jazz, molte delle quali per studiosi e appassionati rappresentano ancora oggi un riferimento, è quella fra anni cinquanta e settanta: pensiamo a Marshall Stearns, a Barry Ulanov, a Joachim Berendt, fino ad arrivare al nostro Arrigo Polillo. Poi c’è stato un lunghissimo periodo di microstorie, di storie parziali, di necessari approfondimenti di dettaglio, che hanno modificato in maniera sostanziale il modo con cui studiare questa musica. Al punto che credo che un po’ tutti abbiamo finito per pensare che sarebbe stato difficile riuscire a ritornare ad una storia generale, proprio perché tutte queste microstorie dimostravano la grande complessità del jazz. Però sembrerebbe che adesso siamo ad un nuovo periodo di sistematizzazione, di bisogno di rimettere un po’ in chiaro le cose, di una nuova necessità di sintetizzare”.
Lunedì 2 novembre Claudio Sessa è stato ospite di Jazz Anthology per parlare del suo importante saggio sulla storia del jazz, Improvviso singolare. Un secolo di jazz, da poco pubblicato dal Saggiatore (540 pp., 27 euro). Ex direttore del mensile Musica Jazz, collaboratore del Corriere della Sera, docente di Storia del jazz presso il Conservatorio di Cuneo (e per una ventina d’anni, fra settanta e novanta, conduttore di Jazz Anthology), Sessa ha cominciato a concepire questo lavoro una quindicina d’anni fa.
“L’ho pensato come parte di una trilogia di cui Improvviso singolare è il secondo momento, mentre il terzo sarà un libro sulle identità strumentali del jazz. La prima tappa è stata Le età del jazz. I contemporanei, uscito nel 2009. L’idea di cominciare per così dire dal fondo, dai contemporanei, è venuta dall’editore, Luca Formenton, a cui ovviamente interessava innanzitutto un libro che ancora non esisteva: e tutt’ora devo dire che ho buttato un sasso ma lo stagno si è subito richiuso, e non mi pare che da allora siano usciti altri libri sulla scena contemporanea del jazz.
Benché tu abbia iniziato questa tua ricognizione della storia del jazz con I contemporanei, però i contemporanei, che sono quelli che in generale mancano sempre nelle storie del jazz, ci sono abbondantemente anche in questo libro…
In effetti la mia intenzione è stata quella di non raccontare solo le cose più scontate, ma di usare dei parametri di giudizio che potessero servire anche per cercare di leggere la contemporaneità, se non proprio l’attualità dell’altro ieri: quindi con questo libro arrivo dentro il ventunesimo secolo.
Negli ultimi anni sono state pubblicate alcune nuove storie del jazz: le traduzioni di quelle di Alyn Shipton, che si intitola proprio Nuova storia del jazz (Einaudi), e di Ted Gioia, Storia del jazz (Edt), e il libro di Stefano Zenni, Storia del jazz. Una prospettiva globale (Stampa Alternativa). Il primo elemento di originalità del tuo libro lo troviamo quindi già nel titolo, che evita la parola “storia” e sceglie invece la suggestiva formula “Improvviso singolare”: che mi pare voglia avere più di un senso.
Sì, “improvviso singolare” è intanto proprio il jazz: la sua irruzione, la sua rapida affermazione, all’inizio del secolo scorso, sono effettivamente qualcosa di improvviso e singolare. Ma d’altro canto il jazz è un fenomeno nel quale l’improvvisazione ha un grande peso e in cui la singolarità degli individui, perché si tratta di una musica eminentemente di individui, è altrettanto determinante.
Uno dei motivi di maggiore interesse del libro è la struttura: all’interno di alcune grandi fasi storiche, il jazz viene approcciato progressivamente a partire da un orizzonte largo, passando dagli eventi di rilievo generale, dal livello politico e sociale, ai fatti culturali, al costume, agli sviluppi tecnologici, per poi stringere sul jazz e approdare anche all’analisi di singoli brani emblematici. Addirittura tu parti da uno sguardo d’insieme al – per dirla alla Wallerstein – “sistema-mondo” nel momento in cui inizia la tratta degli schiavi.
Credo che per spiegare la peculiarità del jazz si debbano prendere le cose un po’ da lontano, anche perché è mia profonda convinzione che il jazz, se lo si osserva in questa maniera un po’ “totale”, ci possa servire molto anche a spiegare un po’ il mondo contemporaneo. Da secoli di tratta nascono nelle Americhe delle musiche di sintesi che chiamiamo musiche afroamericane: la prima ad avere un grande effetto di rimbalzo sul resto della cultura occidentale è stato proprio, dall’inizio del Novecento, il jazz, e da qui prendo le mosse, identificando quattro grossi periodi, nella storia in particolare degli Stati Uniti, e più in generale di tutto l’occidente. Poi cerco di evitare di raccontare la storia del jazz nella maniera schematica e convenzionale delle vecchie storie del jazz, per stili o per decenni, ma appunto cerco di capire se ci sono delle fasi storiche dentro le quali avvengono dei mutamenti che di necessità trasformano anche la cultura e quindi anche il jazz.
Rispetto ai luoghi comuni, ai cliché, che trovavamo nelle storie del jazz “tradizionali”, in Improvviso singolare ci sono molti elementi innovativi. Per fare un esempio, nel passaggio dallo swing al bebop una lettura abbastanza acquisita vedeva i due fenomeni in un rapporto di rottura del secondo rispetto al primo: non che in quella lettura non ci fossero degli elementi di verità, ma tu fai notare tutta una serie di fermenti, anche in ambiti diversi da quelli strettamente del bebop, che determinano un nuovo scenario, in un movimento molto più complesso, più “molecolare”.
Il tardo swing è qualche cosa che ha già in sé non dico certe caratteristiche formali – anche se magari si possono trovare anche quelle – ma soprattutto delle esigenze espressive e psicologiche che poi sono le stesse del primo bebop, anche se all’epoca vennero viste come due musiche in forte contrasto fra di loro.
Nel ’63 con Il popolo del blues Amiri Baraka avanza una interpretazione della vicenda del jazz alla luce dell’esperienza storica degli afroamericani, vista come il motore principale dell’evoluzione del jazz, di cui per Baraka gli afroamericani sono gli attori decisivi. Sul ruolo di neri e bianchi nella vicenda del jazz si discute da tempo immemorabile: su questo la tua ricostruzione come si colloca?
Il mio è un tentativo di superare la dicotomia, anche se poi ho le mie simpatie… che credo si colgano abbastanza facilmente in questo libro, e qualcuno in qualche recensione le ha anche fatte notare. Credo che quando usiamo la parola “afroamericano”, involontariamente noi accentuiamo le prime due sillabe, cioè per noi “afroamericano” significa “nero”. Ora, la parola “afroamericano” vuol dire nero e bianco, nero e altro dal nero, quantomeno. Il jazz e le musiche afroamericane sono esattamente questo, sono una sintesi di culture nelle quali ha più valore l’idea della sintesi multiculturale che non la presenza superiore di una singola cultura sulle altre che la compongono. Secondo me è questo il fattore più emozionante di una musica come il jazz, cioè trovare qualche cosa che non è più né bianco né nero, in un certo senso, anche se poi ci possiamo dilettare ad entusiasmarci per le componenti nere come per certe componenti non nere, e poi i singoli brani ovviamente possono scostarsi da questa interpretazione. E’ per questo fra l’altro che, a differenza della maggior parte delle storie del jazz, non comincio con una parte sulla musica africana.
Tuttavia, anche grazie al robusto ancoraggio alla storia che percorre tutta la tua disamina, il tuo libro evita in maniera molto forte quei rischi che definirei di “revisionismo”, per cui, anche per via del fatto che oggi il jazz è diventato qualcosa che si fa dovunque e da chiunque e in tutte le salse, gli afroamericani sembrano diventare quasi un dettaglio, uno fra i tanti, nella vicenda del jazz.
Sono profondamente convinto del fatto che gli afroamericani sono stati il detonatore di questa musica, che non avrebbe potuto darsi senza la componente della cultura afroamericana: e cerco di spiegarlo in tanti punti del libro. Da questo però a volere identificare il jazz con una cultura nera, ce ne passa. Del resto gli stessi neroamericani hanno una gamma molto ampia di atteggiamenti culturali nei confronti della musica che fanno.
La nostra generazione si è formata all’ascolto del jazz, e della musica in generale, su Lp carichi di storia, informazioni, contesto. Oggi la fruizione della musica si è “smaterializzata”, apparentemente con una perdita di storia. Che sensazione hai, anche sulla base della tua esperienza di docente di conservatorio ?
Ci sono anche lati positivi. Rispetto ad anni fa in cui incontravo spesso giovani musicisti inchiodati su un determinato modello o un determinato periodo storico, tipico il caso dell’infatuazione esclusiva per Charlie Parker, oggi vedo spesso musicisti giovani o abbastanza giovani innamorati di personaggi diversi e appartenenti ad epoche totalmente diverse, magari anche figure secondarie. Questo tipo di polverizzazione dell’ascolto e della conoscenza quindi a volte ha anche un effetto utile, liberatorio, perché tirando un filo puoi fare delle scoperte inattese, che possono aiutarti in un tuo percorso più personale: sempre che tu voglia costruirtelo, perché la ricerca individuale è sempre indispensabile.