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- Tratto dal podcast Coronavirus |
La convivenza col coronavirus COVID-19 ci costringerà a modificare abitudini e ripensare gli spazi in funzione del distanziamento sociale. La fase 2 è in dirittura d’arrivo e c’è chi, come l’architetto e urbanista Stefano Boeri, guarda al lungo periodo e pensa a come le città dovrebbero cambiare e mutare partendo proprio dagli enormi problemi sorti in questa fase di pandemia.
Come dovrebbero cambiare le città nel prossimo futuro? L’intervista di Tiziana Ricci a Stefano Boeri Cult.
Ci troviamo davanti a due scenari, in piccola parte necessari e in larga parte preoccupanti. Da un lato c’è l’idea di un controllo digitale e una presenza pervasiva del mondo digitale con riconoscimento facciale, intelligenza artificiale, smartphone e droni. In alcuni Paesi come Cina, Giappone o Corea del Sud i cittadini sono in qualche modo codificati in base al loro stato di salute rispetto al virus e al contagio e accendono meno agli spazi in base a questo codice. In parte questo aumento delle reti di controllo digitale sarà utile, ma in grandissima parte costituisce una grande minaccia alla privacy individuale. L’altro scenario distopico e da incubo è quello dei muri trasparenti, i plexiglas da spiaggia o da bar.
Noi dobbiamo cercare di evitare, o almeno ridurre al minimo, queste presenze che ci saranno e abbiamo due grandi strade: l’architettura dei tempi e l’architettura degli spazi.
L’architettura dei tempi vuol dire cambiare gli orari di ingressi e di uscita delle scuole, degli uffici pubblici e di tutto ciò che attira movimenti. La desincronizzazione è fondamentale.
L’altra cosa è lavorare sugli spazi e, soprattutto, sugli spazi aperti.
Tu hai parlato molto delle piazze. In che modo si possono sfruttare?
Bisogna sfruttarle perché l’aria aperta è il miglior antidoto contro la stabilità del virus. Dobbiamo usare le piazze, i giardini e i parchi per poter fare tutto ciò che di solito viene fatto all’interno degli edifici. Mi riferisco anche al commercio. Il tema dei dehors è importantissimo. Bisognerebbe consentire i dehors a tutte le attività commerciali a piano terra, perché sono la vita di una città e perché legano la vita intima degli edifici alla vita pubblica. Bisogna pensare ad un ridisegno della mobilità, come il comune di Milano sta già considerando: ci vuole più spazio per la mobilità pedonale e ciclabile e bisogna affrontare la grande sfida della riduzione del traffico privato. Credo che questa sarà la cosa più difficile, ma fondamentale.
Dobbiamo immaginare un autunno e un inverno in cui la cultura e l’intrattenimento saranno soprattutto all’esterno e per questo dobbiamo attrezzarci. Sappiamo cosa vuol dire riscaldare uno spazio aperto, troviamo il modo di farlo meglio garantendo la distanza dei corpi senza però perdere la dimensione di partecipazione collettiva agli eventi che le piazze danno.
Guardando al lungo periodo hai parlato di un grande progetto nazionale per riqualificare i piccoli borghi. Stefano Boeri, ci spieghi questa idea?
È molto semplice. Prima di tutto dobbiamo migliorare la qualità della vita nelle città, dove abbiamo un problema anche semplicemente pensando alle polveri sottili che gravano sul cielo di Milano, ma che gravano anche sul cielo della regione dell’Hubei in Cina. Questa presenza non è la causa dell’epidemia, ma è sicuramente una concausa perché indebolisce le difese polmonari. Noi non possiamo più accettare di avere nell’aria una situazione di questo tipo. Questo è fondamentale, è la prima questione. Dobbiamo cercare di muoverci in questa direzione e questo vuol dire fare subito una serie di scelte.
Migliorare la vita vuol dire chiudere una volta per tutte i vettori col carburante fossile, intervenire sulle caldaie ovunque, pensare un’agricoltura meno intensiva e più differenziata basata su culture che si rivolgono anche al ciclo dell’alimentazione urbana.
Credo che ci sarà una tendenza ad abbandonare una così alta densità abitativa e anche dopo il vaccino resterà l’idea di dire “andiamo a vivere in situazioni di minore densità”, visto che lo si può fare anche grazie al digitale. Per questo dico: cerchiamo di evitare una nuova ondata di villette e palazzine avendo noi una risorsa pazzesca come i borghi storici, i centri montani e i piccoli centri appennini, ma anche sulle vallate prealpine intorno ai laghi. Questi sono spazi per la maggior parte in abbandono.
Tu dici che i grandi centri urbani dovrebbero adottare questi borghi. Cosa vuole dire?
Adozione è stato un po’ visto come un termine che illude all’assistenzialismo. Io credo che le grandi città debbano essere promotrici consapevoli di questo progetto. Si tratta di capire qual è l’alleanza tra i piccoli borghi in stato di abbandono e le grandi città, sapendo prima di tutto che questi piccoli borghi erano città ed erano erano nuclei urbani di grandissima e densa urbanità. Questa è un’alleanza che sta nella storia del nostro Paese e della nostra cultura. Se io voglio convincere una giovane cooperativa che lavora sulla produzione agricola a trasferirsi e progettare il futuro in un piccolo borgo dell’Appennino devo farle la possibilità di inserirsi in un ciclo produttivo che dà sicurezza.