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Cimitero Maggiore, quello che resta: la pandemia e i morti da nascondere

cimitero maggiore

«I numeri che ci vengono comunicati ogni sera, in modo automatico e senza scrupolose osservazioni, nascondono prima di tutto vite, volti, storie. Per altro si tratta di numeri sempre meno accompagnati da preoccupazioni. È assuefazione? Quello che sembra venire meno, più o meno consapevolmente, è l’empatia, il sentimento che si accompagna al dolore della perdita, anche di chi non conosciamo, insomma la compassione nel suo senso più profondo, come partecipazione alla sofferenza dell’altro. Di fatto, consegnati alla natura e al privato, l’invecchiamento e la morte hanno subito la sorte di tutto ciò che è stato considerato “non politico”, e perciò anche fuori dalla storia e dalla cultura…»
(Lea Melandri su comune-info.net)

Questo racconto inizia da un fiocco grigio, quelli che si appendono sui cancelli per dare notizia di un lutto, e che da marzo si sono moltiplicati velocemente. È uno dei tantissimi che amici e familiari continuano ad attaccare per ricordare le persone care, e si trova in un condominio della Cagnola, alla periferia di Milano. Il signor L.C., poco più di 80 anni “e mai un malanno”, raccontano con orgoglio i vicini, ci viveva nel suo appartamento con la moglie con cui era sposato da 55 anni. Circa un mese fa è arrivata l’ambulanza, la prima di almeno tre, che da lì in poi hanno portato il suono lugubre delle loro sirene sotto le finestre della sua scala, dove su dieci appartamenti almeno sette hanno avuto casi di Covid. La compagna di una vita costretta a restare chiusa in casa, a vederlo per l’ultima volta solo la figlia, tenuta a debita distanza dentro al cortile. Poi la polmonite, una lunga degenza in terapia intensiva, poco prima di Sant’Ambrogio il peggioramento e la morte, in solitudine.

Dalla Cagnola al cimitero di Musocco la strada è dritta e breve, ma può diventare tortuosa e lunga. Perché non è facile, spesso non è neppure possibile decidere se e come salutare i propri cari. Dolori privati e solitari che accomunano migliaia di milanesi. Soprattutto se la strada passa da Lambrate, dalla parte opposta della città, nel crematorio di Milano. Un mese fa, come già successo durante la prima ondata della pandemia, era stata bloccata la cremazione dei non residenti. Nonostante questo i tempi di attesa sono ancora lunghi, per avere le ceneri dei propri cari: la famiglia di L.C dovrà attendere settimane, prima di potergli dare pace nella terra di Musocco.

Il Cimitero Maggiore è il più grande di Milano, è ben curato con i suoi ampi spazi verdi che lo rendono un parco della memoria e della storia della città. Anche di quella recente. E’ un luogo che ispira rispetto. Camminare tra le sue strade, circondati dalla nebbia di dicembre, è un esercizio di raccoglimento e riflessione, soprattutto quando si affondano i piedi nel fango del Campo 24, quello che ospita le vittime della seconda ondata.
Il colpo d’occhio è raggelante, perché il Cimitero Maggiore dà senso alla freddezza dei numeri, che qui tornano ad essere persone, e dà luogo al dolore di chi ha perso qualcuno di caro. Sono coloro a cui il presidente del Consiglio non ha ritenuto di dedicare una parola nel giorno in cui l’Italia ha avuto il picco delle vittime della pandemia, e quelle che il presidente di Confindustria Macerata ha liquidato con un’alzata di spalle e uno sprezzante “pazienza”.

I fiori freschi sono posati sulla terra. Cofani di rose, crisantemi, corone appoggiate agli alberi. Gli operai con le tute bianche e le mascherine lavorano senza sosta per interrare i casseri, grossi contenitori di metallo utilizzati per le sepolture. Le lapidi bianche, tante, tutte uguali, fanno subito capire che il Campo 24 si è riempito in fretta, da agosto a oggi le file sono quasi arrivate alla fine. “Come in primavera il crematorio è in affanno – racconta uno degli operai che cura le tombe provvisorie – il numero di persone che vengono messe sottoterra è aumentato rispetto al solito”.

A Milano l’eccesso di mortalità giornaliera, che a Marzo aveva toccato anche il 92%, ora è al 44%, secondo i dati del ministero della Salute. E così, dai 3 o 4 funerali di un giorno qualsiasi, si è arrivati ai 40 di marzo e aprile, fino a 15 nel mese di novembre. Adesso sono 5 o 6, un ritmo lento ma costante, come sono ora i numeri della pandemia. Morti di covid, per covid, di altro.

Nessuno può dire se Giovanni, Fabrizia o Giovina siano tra quelle centinaia di decessi comunicati sbrigativamente ogni giorno. Numeri che da soli non bastano più a trasmettere la reale portata di questa strage. I camion con le bare, l’immagine peggiore di questo 2020, sono ormai dimenticati. Sono passati solo sette mesi da quando quel corteo fece ammutolire il paese, attanagliato nell’angoscia e piegato da un lutto devastante e non elaborato. A quelle persone e a chi restava non fu possibile nemmeno concedere il rito funebre, le lacrime o i mazzi di fiori. “Mia sorella è morta ad aprile – racconta un uomo intento sistemare una tomba – non so se il covid abbia aggravato quel brutto male scoperto troppo tardi. Le avevano dato tre mesi di vita e non è arrivata nemmeno a due. Ora è qua, non siamo nemmeno riusciti a farla cremare per metterla insieme a nostra madre”.

Il lavoro incessante da ottobre nei forni crematori milanesi ha moltiplicato i giorni di attesa, e i servizi cimiteriali hanno dovuto ordinare nuovi carrelli in acciaio per trasportare i feretri. Fino a costringere il fermo dell’attività. La conseguenza è stata una crescita delle inumazioni, addirittura triplicata nelle giornate più dure della seconda ondata, negando anche il più straziante dei ricongiungimenti. Così il Campo 24 è diventato una cronologia dei tragici mesi del 2020: le sepolture dei morti di questa estate hanno qualche segno di cura, con i fiori cambiati, qualche fotografia e decorazione tra la terra e l’erba. Mano a mano che ci si avvicina all’oggi, i fiori iniziano ad appassire, la terra sui corpi si fa più brulla, le fotografie scompaiono e lasciano il posto alle piccole lapidi bianche, tutte uguali.

Appoggiata a un albero c’è una corona, è per Anna Maria, sul nastro l’ultimo saluto della sorella. Per molte famiglie il Natale sarà questo: appoggiare un fiore o sistemare il rettangolo di pietre che delimitano la tomba di due coniugi che se ne sono andati a un giorno di distanza. Piccole croci bianche, qualche foglio plastificato a rendere meno anonimo quel rettangolo di terra e i fiori, tanti fiori, sono le uniche tracce di un dolore vissuto in forzata solitudine e che non trova nemmeno il conforto del sentimento collettivo di partecipazione. “Anche di parenti se ne vedono pochi: per paura e disinteresse” dice chi qui lavora ogni giorno e ha visto con i suoi occhi cosa sia stata la pandemia, da un osservatorio che tocca con mano la sofferenza ed il lutto; come chi stava negli ospedali, con cui condivide anche la tuta bianca protettiva e la richiesta di chiudere al più presto. Un peso difficile da condividere: “Non sappiamo con chi parlare, perché non possiamo andare a casa dai nostri familiari o sentire i nostri amici e parlare di morti”, raccontano. Proprio per questo non comprendono quel disinteresse.

Quei morti, persone di ogni età, oggi sono rimossi, se non addirittura vissuti quasi come un ingombro che ostacola la ripresa economica, lo shopping e le gite in montagna. Per loro, oggi, quasi nessuna pietà.
È una rimozione funzionale a dimenticare le responsabilità, lasciando una domanda in sospeso: quante vite si potevano salvare con misure tempestive, e dando priorità alla salute prima che al mercato? La terra del cimitero di Musocco grida che questi morti, ingombranti e scomodi, sono reali, e qualcuno deve risponderne.

All’ingresso del cimitero di Monza è stata da poco posta una stele che ricorda le vittime della pandemia. “Non sono numeri, ma persone con le loro storie, e lo strazio dei parenti che non hanno potuto accompagnarli negli ultimi istanti”, ha detto il sindaco Dario Allevi durante l’inaugurazione.
Anche a Milano servirebbe una pietra dove incidere questi nomi e cognomi, sarebbe un segno di rispetto ed empatia, contro la rimozione strumentale di una memoria che, per quanto dolorosa, occorre preservare.

Scriveva Tina Merlin a proposito del Vajont:
“Dico che bisogna arrestarsi un momento e pensare alle conseguenze future del nostro agire. Dico che in una società civile la persona umana deve sempre stare al di sopra di ogni considerazione dei politici, siano essi al governo o al Parlamento o alla Regione. Questo significa mirare ad un avvenire migliore”.
Anche nel nome di Giovanni, Fabrizia, Giovina e Anna Maria, che non riusciranno a vederlo.

Antonella Barranca e Massimo Alberti

Foto di Antonella Barranca

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    Massimo Alberti
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