Brutti, sporchi e cattivi.
E’ il modo in cui, spesso, sono stati descritti i repubblicani pro-Trump. Gente senza una vera cultura politica. Espressione di ceti deprivati economicamente. Un popolo soprattutto bianco, mosso dalla rabbia e da una straordinaria voglia di rivalsa.
In realtà, è sufficiente farsi un giro per Cleveland, in questi primi giorni di Convention per capire che la formula, come spesso succede per le formule, non corrisponde alla realtà. E’ vero che, rispetto al mondo repubblicano più tradizionale, gli elettori di Donald Trump portano una novità importante. Il loro approccio alla politica è più “esistenziale” che ideologico; fatto non solo di programmi e strategie, ma anche di moventi profondamente “personali”.
“Donald è la persona giusta per liberarci della minaccia ISIS. Ci può restituire la certezza della vita”, mi dice Donna Hayes, una delegata della Florida. “Donald è il leader capace di creare il lavoro che manca all’America. Come ha fatto con le sue aziende”, spiega Ron Sheffer, militante repubblicano dell’Iowa. E, secondo Bernie James, un delegato 28enne dell’Oregon, “Trump può far tornare l’America grande, come quella che hanno conosciuto i miei genitori”.
Donald Trump, per il suo elettorato, non è quindi Joe McCain o Mitt Romney; non è un semplice politico che chiede di andare alla Casa Bianca per amministrare il Paese. E’ qualcosa di più. E’ il salvatore; è il leader che, in una commistione di politica, comunicazione televisiva, ricchezza personale, disprezzo per Washington, promette di cambiare la vita degli americani.
Non a caso il suo slogan è: Make America great again, far tornare grande l’America. Non è chiaro a quale America Trump voglia tornare; quale sia il suo modello di grandezza. Ma, come in tutti gli appelli al sogno, i dettagli e la realtà importano poco. L’importante è appunto che ci sia un sogno da realizzare. Non è poi un caso che Trump e la sua campagna continuino a insistere su un’immagine di America devastata, in piena decadenza, travolta dalla paura e dall’insicurezza. Il quadro è ben più pesante della realtà, ma serve appunto a rafforzare il racconto dell’uomo che salva e cura.
Gli elettori di Trump non sono dunque soltanto uomini e donne dell’America bianca e deprivata. Proprio perché si basa su sogni e paure, quindi su percezioni, l’appello di Trump è interclassista, interazziale, oltre le generazioni e i generi. Non c’è del resto bisogno di essere davvero poveri, privi di mezzi, per desiderare una vita migliore. E quindi a Cleveland, tra chi spera in un presidente Trump, ci sono molti bianchi, ma ci sono anche i membri delle minoranze, ispanici e afro-americani. Ci sono molte donne, che non pensano affatto che Trump sia sessista. “E’ un’invenzione dei media liberal, Donald è uno che cede il passo alle signore. Ti sembra sessista?”, mi ha detto Maria Jimenez, delegata della Virginia. E ci sono professionisti, middle-class, ceti abbienti che non devono per forza sentire il peso della crisi per abbracciare il messaggio di Donald Trump.
Come tutti i fenomeni populisti, Trump oltrepassa classi e interessi, tradizione e identità. C’è, a questo proposito, un dato interessante. Nel primo giorno di Convention, ben due interventi, quello dell’ex sindaco di New York Rudy Giuliani e quello dello sceriffo della contea di Milwaukee David Clarke, hanno contenuto accenni aperti ai connazionali omosessuali, equiparati agli eterosessuali. Nessuno tra i migliaia di delegati e invitati in platea ha avuto da ridire. Nessuno ha urlato il suo disappunto. E’ uno sdoganamento silenzioso, che non a caso avviene nel momento della candidatura di Donald Trump. Il suo appello, appunto, cancella le distinzioni del passato. Travolge i vecchi valori. E’ indifferente alle ideologie.
Come ogni leader populista, Donald J. Trump chiede in fondo soprattutto una cosa: la fede nella sua capacità di essere l’uomo della provvidenza.