«Se tutte le persone intelligenti fossero anche buone, il mondo sarebbe un posto migliore.»
Come si intuisce da questa frase, il secondo romanzo di Beatrice Masini, Il nome che diamo alle cose (ed. Bompiani) percorre, come già accaduto in altre opere della stessa autrice, il sottile filo degli affetti. O forse della loro mancanza.
Anna, una quarantenne dalla vita punteggiata da strappi dolorosi, anche se ormai stabilizzata in un forzato contrappunto di lavoro-svago, scopre all’improvviso che una nota scrittrice per l’infanzia, incontrata tempo prima in modo relativamente fortuito, le ha lasciato in eredità la dépendance della sua dimora in campagna, con un gesto sovrabbondante e generoso.
Anna decide di cambiare vita di colpo, forse anche per rompere una insoddisfacente quotidianità. Dopo un periodo di solitudine nella nuova residenza, la donna comincia a intrecciare nuovi legami e rapporti e scopre scritti, oggetti e aspetti, talvolta inquietanti, della sua benefattrice.
Un viaggio alla scoperta della natura difettosa dell’umanità, della volatilità di certe priorità, della difficoltà di costruire (e soprattutto conservare) affetti certi e autentici. Un romanzo ricco di riferimenti letterari, come accade quasi sempre nei libri di Beatrice Masini, data la sua lunga storia nell’editoria.
Beatrice Masini è nata a Milano. Editor, traduttrice (ha tradotto, fra l’altro, la saga di Harry Potter), autrice per l’infanzia e l’adolescenza e per gli adulti. I suoi libri sono tradotti in una ventina di paesi.
L’abbiamo intervistata a Cult in occasione della presentazione del romanzo al Circolo dei Lettori di Milano.
Ascolta l’intervista a Beatrice Masini